Intervista con Alessandro Gambo, direttore artico del festival Jazz is Dead! di Torino

Quinto appuntamento della serie di interviste a direttori artistici di Festival, in giro per l’Italia, che si approcciano alla Musica in maniera caratterizzante, provando a dare un loro punto di vista peculiare sul panorama contemporaneo. La prima intervista è stata con Paolo Francesco Visci, direttore dell’IndieRocket Festival di Pescara (qui). La seconda intervista è stata con Marek Lukasik, direttore artistico del Lars Rock Fest di Chiusi, in provincia di Siena (qui). La terza intervista è stata con Massimo Simonini direttore artistico dell’AngelicA Fest di Bologna (qui). La quarta intervista è stata con Lucia Ronchetti, direttore del 67° Festival Internazionale di Musica Contemporanea Micro-Music, della Biennale di Venezia (qui). Oggi intervisto Andrea Gambo direttore artistico del festival Jazz is Dead!, di Torino. Navigando in rete e leggendo le riviste di musica sono venuto a conoscenza di questo interessante festival dedito alla contaminazione musicale in tutte le sue forme, basta vedere l’anticipazione del cartellone con Suzanne Ciani e John Zorn, e ho subito pensato di contattare Alessandro Gambo, per approfondire con lui la genesi, la filosofia e la poetica che anima Jazz is Dead! A voi come sempre la lettura.

Iniziamo dall’origine, come è nata l’idea del Jazz is Dead! Festival?

(foto in home page di Amalia Fucarino) L’idea è nata da una serie di eventi che ne hanno portato alla creazione. Io lavoravo come direttore artistico del circolo Magazzino sul Po, che è uno degli attuali direttori del festival Jazz is Dead! Curavo una rassegna di Jazz, una classica rassegna jazz, con tanto di jam sessions, e negli anni mi ero accorto che la scena si stava disgregando, o soprattutto si stava legando ad uno stile chiamiamolo passato, ad una visione un po’ obsoleta di quella che poteva essere la musica jazz. Questa era stata una mia sensazione; in parallelo il Torino Jazz Festival veniva cancellato per un anno dalla nuova giunta, e ancora in parallelo Arci Torino festeggiava i suoi 60 anni di vita. Quindi cosa è successo, che l’Arci voleva festeggiare il suo compleanno, e mi ha chiesto di provare a inventarmi qualcosa che potesse celebrare questa ricorrenza. Vista anche la situazione del Jazz a Torino con la cancellazione del festival, è nata spontaneamente questa idea di Jazz is Dead!, cioè organizzare un evento che ne celebrasse, ne decretasse la morte in quanto esperienza ormai passata, ma che andasse a guardare una sua rinascita nei nuovi generi, nei nuovi stili e a far vedere come il Jazz abbia influenzato la musica contemporanea. Il nome ci è subito piaciuto, il progetto è piaciuto all’Arci e quindi lo abbiamo messo in atto. Inoltre, quarto aspetto e ulteriore incentivo a seguire questo filone è stato il fatto che i primi tre anni il festival si è svolto all’interno di un ex cimitero, un posto magnifico, Cimitero di San Pietro In Vincoli a Torino, chiostro fantastico, cappella interna bellissima, tantissimi teschi, le lapidi, insomma una situazione che ha fatto sì che il tutto convogliasse in questo Jazz is Dead!

Un nome che subito ha fatto storcere il naso, tuttora fa storcere il naso, ai puristi legati al jazz classico, allo standard jazz, ad una visione ahimé obsoleta, anche perché il Jazz Club a Torino era diventato un ristorante, quindi i musicisti suonavano al ritmo delle forchette e dei coltelli che battevano sui piatti. Altre situazioni in città: c’era il Caffè des Arts, c’era il Charlie Bird che è una pizzeria, qualche jam session, il Mad Dog, perciò stiamo parlando di una scena a Torino che si era andata disgregando e i musicisti erano diventati meri esecutori di standard, non c’era più la linfa. Quindi l’idea è stata quella di dare questa sterzata in città, che da subito, per quanto abbia fatto storcere il naso ai puristi, in parallelo chi aveva una visione un po’ più allargata ha iniziato ad “alzare le orecchie” perché ha compreso la proposta, tant’è che il primo anno ha suonato Peter Brotzman, ahimé riposi in pace, hanno suonato i Faust, ha suonato Gianluca Petrella con Dj Gruff, e così abbiamo iniziato a dare questa sorta di visione, di contaminazione, di parallelismi alla musica jazz dove naturalmente si creano intrecci, scambi, si crea una sorta di dialogo tra generi. È nato Jazz is Dead!, ed è stato sold out immediatamente; il posto era tra virgolette piccolo ma abbiamo avuto migliaia di persone sin dalla prima edizione, non riuscivamo a farli entrare, chiamiamoli good problems, i problemi di quando hai troppa gente, però non è mai successo nulla, tutto è sempre stato gestito molto bene, l’evento è stato gratuito fino a quest’anno, quindi anche complice la gratuità che ha fatto sì che anche i curiosi decidessero di “buttare comunque un orecchio”. E crediamo che negli anni questo orecchio si sia affinato sempre di più e sempre più persone seguono il nostro festival, tanti tutt’ora continuano a non conoscere la line up che proponiamo, e sono ben felici di non conoscerla proprio perché vogliono venire senza preconcetti, perché si fidano della direzione artistica, si fidano del festival e credono tantissimo in questa offerta alternativa al jazz. Ma negli anni in tutte le varie edizioni abbiamo scoperto che questo darci un genere sarebbe stato troppo limitante, e quindi il corvo che è il nostro logo, il nostro animale guida, sempre per rimanere un po’ funerei, si è evoluto, ha mutato forma, ha mutato colore, proprio per andare a rappresentare le nostre scelte artistiche, che mutano, cercando di rompere le catene, per far volare questo corvo nel mondo musicale senza limiti, senza generi, senza più vincoli stilistici.

Da questo cappello introduttivo entro nello specifico e faccio una serie di domande “tecniche”: come è strutturata attualmente l’organizzazione del Festival? Quante persone ci lavorano? Quanti volontari?

Diciamo che ci saranno 30 professionisti e altrettanti, anzi 40, volontari; ovviamente i compiti chiamiamoli principali sono affidati ai professionisti, e complice anche il fatto che dietro a Jazz is Dead! ci sono tre associazioni Arci tra cui anche Arci Torino, la possibilità di vivere dei momenti di aggregazione, di condivisione ha fatto si che anche la comunità dei volontari, a cui non viene richiesto un vero e proprio lavoro, assolutamente, ma una presenza e dei compiti molto semplici e spesso anche divertenti, andasse a integrare questa attuale compagine di 60, 70 persone che gravitano nel festival, seguite da tre associazioni Arci che sono Arci Torino, Magazzino sul Po e Tum, così divisi: Arci Torino si occupa dell’amministrazione, della contabilità e dei rapporti istituzionali, Magazzino sul Po si occupa della logistica e della somministrazione, come Tum ci occupiamo della direzione artistica e della comunicazione. Questa è la struttura principale, poi ovviamente abbiamo una squadra che si occupa della produzione tecnica, fonici, service, e tutti i vari professionisti che possono girare attorno alla creazione di un evento, quest’anno ancora più grande perché abbiamo deciso di creare un palco esterno che non abbiamo mai avuto. Questo ci consentirà di rendere la visibilità più accessibile perché tutti gli anni, per quanto fosse stato gratuito, avevamo un sold out sia nella macro area, sia nell’area concerti dove c’è il palco che, per quanto abbia una capienza di circa 500 persone, non ci permetteva di far entrare tutti; quindi chi veniva al festival girava nell’area ma non poteva vedere gli artisti, ascoltava la musica ma dietro era un po’ complicato. Adesso abbiamo un’area esterna da più di 1000 di persone, quindi tenendo conto che l’anno scorso, comprese le anteprime e l’epilogo, sono girate circa 8000 persone, diciamo che dovremmo essere pronti ad accogliere tutti.

Continuo nelle questioni tecniche: quando iniziate a pensare la programmazione del cartellone del festival e come selezionate gli artisti e le artiste?

La selezione artistica la seguo io, sono un dj, nasco come dj, tutt’ora metto musica nei locali e faccio feste da ballo, anche situazioni da ascolto, e continuo a comprare musica. Sono andati via da casa un po’ di dischi quando è nata mia figlia perché non c’entravamo più, anche perché sono arrivato ad averne 14000, dato che compro dischi dal 1998, sono 25 anni. Per me la direzione artistica viene fatta ogni giorno, ogni giorno è un giorno buono per decidere chi portare, nel senso che ascolto la musica, parlo con gli amici ecc., vivo costantemente per Jazz is Dead! La mia è una continua ricerca, e poi sono fortunato, lavoro molto come direttore artistico anche per altre situazioni e quindi in base alla musica che esce, in base alle suggestioni, in base a chi commissiona il lavoro, spesso a volte sono io che organizzo degli eventi autonomamente, cerco di trovare sempre la musica giusta per il posto giusto e per l’evento giusto. Non c’è un momento in cui mi siedo e dico: devo pensare alla direzione artistica di Jazz is Dead!, no, ascolto la musica ogni giorno, inizio a segnarmi i nomi, mi segno i generi legati ai nomi e poi inizio a costruirmi delle ipotetiche line up. Le line up sono da leggere sempre verticalmente giorno per giorno, nel senso che se tu leggi la line up completa del festival potrebbe risultarti anche un bel minestrone, perché passi dal rap nigeriano di Aunty Rayzor al metal dei Godflesh al jazz di Le Cri du Caire, e dici ma che cos’è? Però se poi vai a leggere il festival verticalmente giorno per giorno capisci che c’è una direzione musicale, un crescendo di ora in ora di come vengono posizionati gli artisti… è un po’ come una scaletta da dj. Parti, c’è un crescendo, un momento pick time, chiamiamolo, un continuum…
Ti confermo che ogni momento è buono per pensare a Jazz is Dead!… io dico che ogni volta che prendo il pulman mi invento un festival, sono lì a pensare, sono tranquillo e qualcosa mi viene in mente. Per fortuna lavoro tanto con il Museo nazionale del Cinema, lavoro con il Museo della Scienza e dell’Astronomia di Torino, lavoro con il Pav Parco di Arte Vivente, lavoro con Aiace Torino per il cinema, lavoro con alcuni comuni, con la Fondazione per la Cultura, quest’anno si lavora con il Torino Jazz Festival. Diciamo che un posto per mettere la musica che mi piace lo trovo sempre.

Domanda retrospettiva: volgendo uno sguardo indietro, quali sono state secondo voi le edizioni più caratterizzanti?

Ti posso dire che fino a questo momento ogni edizione ha caratterizzato quella successiva nel senso che Jazz id Dead! è nato come singolo evento, non pensavamo di farci un festival, doveva essere soltanto questo compleanno di Arci da celebrare. Dopo di che, visto il grande successo, ci siamo guardati in faccia e abbiamo detto: proviamo a fare la seconda edizione, e così via. Che dirti, se posso ricordare il momento in cui ha suonato Peter Brotzman con una sala pienissima, e poi i Faust che saldavano pezzi di ferro e tagliavano con il flessibile dentro questa cappella del cimitero, sicuramente questa è stata un’edizione caratterizzante. L’anno dopo ricordo che come ultimo concerto la domenica facemmo un festival nel festival, lo chiamammo sei per duo, erano sei duetti, l’ultimo erano gli Zeus, gruppo di Luca Cavina e Paolo Mongardi, e mentre suonavano loro, c’è una foto caratteristica che è ancora on line, venne giù un temporale incredibile con tanto di fulmini sopra la cappella, cielo viola e fulmini che venivano giù con gli Zeus che suonavano, è tutto documentato, non invento nulla, ci sono le foto, e tutti si ricordano questa cosa, che fu incredibile. E poi da li Thurston Moore che invita Evan Parker a salire sul palco e fanno un pezzo insieme per la terza edizione; poi la quarta c’è stato il Covid-19 e quindi è stato più complicato. Che dirti, ogni anno è qualcosa in più, ogni anno facciamo più persone, ogni anno è un’edizione a sé stante e ogni anno c’è qualcosa da raccontare, quindi non riuscirei a dirti se c’è stata un’edizione più bella e un’edizione più brutta, ogni anno è diverso, per fortuna, ogni anno c’è sempre qualcosina in più o comunque di diverso e questo fa sì che tutti siano momenti unici che possiamo andare a ricordare e non accozzaglie di nomi buttati lì per fare il festival, ma fondamentali per vivere il festival, vivere un momento.

Quelle con un maggior riscontro di pubblico?

L’anno scorso. Ogni anno cresciamo di più, ogni anno aggiungiamo almeno un migliaio di persone, quindi stiamo iniziando a parlare di numeri importanti.

Altra domanda tecnica: usate i social per promuovere e documentare il festival? Se sì quali preferite? Li ritenete strumenti importanti / necessari per aiutare a conoscere il Festival?

Assolutamente! Noi come Tum abbiamo una squadra che lavora con i social, insieme ai creatori di contenuti. Usiamo anche tanta carta stampata e webzine, cerchiamo di essere ovunque, questo è fondamentale, siamo ancora legati alla locandina da affiggere per strada, però è ovvio che i social permettono di poter condividere link, foto, video, singoli. Puoi permetterti di creare delle adv, delle inserzioni per poter comunicare un determinato tipo di messaggio. Per quanto li odi ovviamente mi rendo conto che al momento sono fondamentali. Purtroppo la figura del pr, il pr che girava per strada, parlo ancora dei club, con il volantino in mano e invitava la gente, se vieni con questo volantino hai lo sconto, entri prima, quello purtroppo manca, ora ci sono gli influencer, è diverso. Ahimè sono il primo che si deve mettere di fronte alla camera e raccontare il festival, il microvideo, ma ci serve, noi abbiamo bisogno di comunicare, di raccontare, adesso il racconto è questo. Non ti nascondo che durante il festival amo presentare tutte le band e cerco di instaurare un rapporto più personale con il pubblico; è possibile che tu mi trovi alla porta all’ingresso del festival invece che dietro il palco, o almeno ci sono un sacco di momenti che sono alla porta per accogliere le persone perché io credo che sia fondamentale il rapporto umano, il rapporto di fiducia. Ripeto, tante persone non conoscono quello che facciamo, non conoscono i nomi, sono persone che si fidano e se la persona si fida è bene accoglierla nel miglior modo possibile, e quindi cerchiamo di umanizzare il più possibile il digitale.

Come viene recepito il Festival dalla Regione Piemonte? Siete radicati sul territorio?

Siamo fortemente radicati, abbiamo anche vinto dei bandi della Regione Piemonte per lo sfruttamento del festival, collaboriamo con il festival Piemonte dal vivo, collaboriamo con altri festival radicati nella regione come Piedicavallo, collaboreremo con realtà come Spazio Idro di Biella o Paralup, che è stato un rifugio partigiano, abbiamo collaborato nell’astigiano al Diavolo Rosso, abbiamo collaborato con il comune di Almese, comune della Val di Susa, con cui abbiamo organizzato un concerto epico degli Zu con Mats Gustaffson, negli scavi di archeologici di una villa romana. Le cose nel Piemonte si fanno, per fortuna Jazz is Dead! è un festival che posso dire che si è radicato anche a livello nazionale; non si guarda più a livello regionale, assolutamente non più a livello cittadino, ma si guarda a quello nazionale se non internazionale, visto che abbiamo il pubblico che arriva da fuori e non poco, vedi la vicinanza con la Francia. Per dirti, l’anno scorso c’era un ungherese che abbiamo visto arrivare al festival. Se consideri che c’è l’Arci dietro, un’istituzione radicata sul territorio da 70 anni, stiamo parlando di questa e altre realtà che insieme hanno un background a spalle larghe, che conoscono, hanno collaborato insieme, continuano a collaborare, e fanno parte di reti e collaborazioni.

Una riflessione, il festival fa parte o ha fatto parte di network nazionali e internazionali?
Per fare un confronto penso al festival internazionale di cinema e documentario a tema musicale Seeyousound che aderisce al Music Film Festival Network https://mffn.org/.

Dall’anno scorso aderiamo all’Associazione Nazionale I-Jazz, l’associazione dei festival jazz italiani, con i quali cerchiamo di creare delle reti per la circolazione degli artisti; abbiamo collaborato con Le Periscope, che è un centro culturale di musica d’avanguardia e jazz di Lione e siamo stati presenti al loro convegno. Ovviamente cerchiamo di collaborare con le realtà che ci appartengono, che ci assomigliano, con le quali ha un senso portare avanti dei discorsi.

Ultima domanda, praticamente mi hai già risposto ma te la rifaccio lo stesso: vedremo il festival all’aperto, in un prossimo futuro?

Già quest’anno abbiamo uno spazio all’aperto. Quest’anno abbiamo introdotto un biglietto simbolico di 10 euro, addirittura calmierato per chi reputasse che non può sostenere questi 10 euro. Il biglietto può costare 5 euro, non chiediamo un controllo, sta al pubblico decidere se pagarne 10 o pagarne 5 al giorno, e come ti ho raccontato sopra, organizziamo questo palco esterno, il main stage.

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