
(Bloos 2025)
I marchigiani The Rootworkers finalmente pubblicano il loro esordio sulla lunga distanza. Dopo l’ottimo Ep “Attack, Blues, Release” di tre anni fa, ci donano nove tracce di splendido blues del Delta, ma impuro, perché il quartetto ha dato alle dodici battute una forma più personale, essenziale e contemporanea. In questo lavoro, infatti, sono evidenti alcuni importanti elementi della loro evoluzione sonora, in quanto si percepisce un lieve e graduale distacco dal blues più puro, perché non disdegnano momenti psichedelici, che forse li porteranno anche verso sonorità stoner.
Il lavoro è stato prodotto da Frankie Wah (Little Pieces of Marmelade), che ha instradato il gruppo a dare ai brani una struttura più compatta e immediata, con arrangiamenti minimali, ma raffinati e a porre particolare attenzione al tono e al timbro vocale, che con la soluzione trovata si pone tra la radici e le ali del blues.
Il lavoro si apre con il lamento da blues ortodosso per motivi d’amore di Love Don’t Pay The Rent, che evolve verso la rabbia con cambi di registro stilistico. Solo questo brano dimostra che i quattro marchigiani hanno elevate competenze blues, dato che i cambi di registro stilistico riguardano alcuni dei principali sottogeneri di questo sound. Catfish Blues, uno degli archetipi del blues, è l’unica cover del disco, nella quale il quartetto non si risparmia con la base ritmica che incalza e le due chitarre che duellano a colpi di stilettate blues ed è un bel sentire! L’evoluzione verso lo stoner si sente nella scandita e psichedelica Desert che possiede quell’evocatività propria dei Kyuss e dei primi Queens Of The Stone Age, brano che fa il paio con Devil on My Bed, per i fuzz, le slide e la tanta psichedelia di cui è infarcito il brano.
It’s gone (And It’s Alright) è inizialmente schematica e frontale, per poi evolvere verso un intrigante psycho-reggae circolare e ipnotico. Se con Proud of My Life (Don’t Ask Me Why) The Rootworkers utilizzano i pattern classici del blues, con Not My Cup of Tea dimostrano di avere una carica boogie esplosiva che fa tornare alla mente “Electric Mud” di Muddy Waters.
Il brano finale è un legittimo omaggio a loro stessi, in quanto propongono una versione alternativa di Dead Flower Blues, resa in questo disco più rarefatta, facendo percepire all’ascoltatore ambientazioni di magia nera e di rituali iniziatici.
Altamente consigliato a chi sente ancora l’esigenza di provare brividi con il blues
Voto: 9/10
