Intervista con Domenico Ferraro, direttore editoriale della Squilibri Editore

Nuovo incontro, il quarto della serie, dedicato a far conoscere ai lettori di Kathodik chi si occupa di promuovere un discorso di critica musicale nell’editoria italiana ed internazionale. Il primo incontro è stato con Marco Refe della Edizioni Crac di Falconara Marittima, in provincia di Ancona (qui). Il secondo incontro è stato con il professore Luca Cerchiari, musicologo, docente all’Università IULM di Milano del corso di Storia della Musica Pop e Jazz, e curatore della collana ‘Musica Contemporanea’ della Mimesis Edizioni (qui). Il terzo incontro è stato con Karl Ludwig, Responsabile Comunicazione della tedesca wolke verlag, in catalogo saggi sulla musica jazz e contemporanea, dedicati ad autori come Albert Ayler e Anthony Braxton (qui). Oggi ritorno in Italia per intervistare Domenico Ferraro, direttore editoriale della Squilibri Editore, realtà culturale e musicale nata con, riprendo le sue parole, “l’ambizione di dare risalto a uno sterminato patrimonio culturale rappresentato dalle musiche di tradizione orale”. Attraverso le mie domande Ferraro ha approfondito la storia e la filosofia delle pubblicazioni di questa interessante realtà editoriale.

Come nasce la casa editrice Squilibri Editore?

Alquanto casualmente, come filiazione da un’associazione che, attiva nell’ambito musicale, aveva iniziato a pubblicare libri e cd, affidandosi a editori che, evidentemente, non avevano preso molto sul serio quelle proposte, rimaste in una condizione pressoché clandestina. Da qui l’idea di fare in proprio, con la costituzione di un soggetto editoriale formalmente -e non solo- separato da Altrosud, questo il nome dell’associazione. In realtà, a muoverci in quella direzione è stata anche l’esigenza di affrancarsi il più possibile dalla politica, dalle cui decisioni dipendono le attività di soggetti no profit, per seguire più liberamente i nostri progetti.

Che senso hanno le parentesi sul titolo squi(libri)?

Un giochino grafico per mettere in risalto la nostra principale ragion d’essere che è quella di fare libri, per quanto di argomento musicale.

Come vengono selezionati i titoli da pubblicare?

Non vorrei dare l’impressione di un eccesso di casualità nelle nostre decisioni ma di fatto le nostre scelte, anno per anno, maturano sulla base di ragioni alquanto casuali, vale a dire la disponibilità, tutt’altro che scontata, di competenze e saperi adeguati a quanto vorremmo pubblicare. Siamo nati con l’ambizione di dare risalto a uno sterminato patrimonio culturale rappresentato dalle musiche di tradizione orale e cosa vorremmo fare è indicato chiaramente dagli accordi sottoscritti con le principali strutture di settore, dagli Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia fino all’Archivio Franco Coggiola del Circolo Gianni Bosio. Ma poi si tratta di trovare anche curatori all’altezza del compito tutt’altro facile che li attende: ecco perché la pubblicazione delle registrazioni di autori come De Martino, Carpitella, Cirese e Leydi, per limitarci ai nomi più rilevanti, procede più a rilento di quanto vorremmo. Detto con non poco rammarico ma anche con la consapevolezza e l’orgoglio di avere già fatto moltissimo su questo fronte, più di quanto sia mai stato fatto in passato.

Quali aree tematiche prediligete per le vostre pubblicazioni?

Non abbiamo mai avuto intenti di pura e semplice conservazione né siamo mossi da propositi di archeologia museale. Anche per questo, accanto alla pubblicazione di materiali sonori di rilevante interesse storico, abbiamo prestato una grande attenzione a quanto succede attorno a noi con l’intento di indagare lo stato attuale delle musiche di tradizione orale, molto più in salute di quanto lascino pensare ricorrenti e sempre superficiali funerali della tradizione, e allo stesso tempo di considerare, senza scandalo ma neanche troppa accondiscendenza, le disparate possibilità di riuso dei repertori popolari, dal cosiddetto folk revival a più recenti ibridazioni con altri generi musicali. Con il tempo il nostro progetto editoriale si è precisato meglio attorno al paradigma dell’oralità e con una forte accentuazione di motivi che connotano da un punto di vista culturale un determinato territorio.

Qualche titolo esemplificativo di queste direzioni di ricerca?

Per quanto riguarda il primo ambito, ‘Nel paese dei cupa cupa. Suoni e immagini della tradizione lucana’ di Nicola Scaldaferri e Stefano Vaja che hanno battuto in lungo e in largo la Basilicata con una rappresentazione delle musiche di tradizione orale alquanto diversa dalle raffigurazioni consacrate nelle ricerche di De Martino e Carpitella. Sul fronte del folk revival, un nome su tutti, Otello Profazio, scomparso di recente, la cui enorme produzione si pone sotto il segno di una trasposizione per cui parti della tradizione orale sono state offerte a un pubblico urbano e “tradotte” pertanto nei termini di una sensibilità del tutto diversa da quella delle comunità originarie: bistratto da molti come “edulcoratore” della tradizione, soprattutto in anni di feroci contrapposizioni ideologiche, Profazio in realtà ha fatto sì che la voce della tradizione giungesse dove non sarebbe mai arrivata.

E per quanto riguarda le ibridazioni con altri generi musicali?

Si può dire che tutta la collana “Crinali” con i suoi quaranta titoli, si ponga sotto questo segno a partire da quel piccolo gioiello di straniante bellezza che è ‘Canti, ballate e ipocondrie d’ammore’ di Canio Loguercio e Alessandro D’Alessandro, le cui opere anche da solisti mantengono questa ambivalenza di rapporto con una tradizione da riprendere e tramutare, a volte anche sovvertire. Lo stesso però può dirsi di quei due autentici capolavori di scrittura originale incardinata nel corpo della tradizione che sono ‘Manzamà’ dei Fratelli Mancuso e ‘Napoli 1534’ della Nuova Compagnia di Canto Popolare o anche di Giuseppe “Spedino” Moffa, con la sua favolosa rilettura dell’eredità culturale di Eugenio Cirese all’ombra dei suoni blues della sua formazione, o anche dell’ibridazione dei canti della traduzione umbra con le sonorità di un ensemble cameristico di ‘Donna voja e fronna’, un progetto del musicologo e compositore Piero Arcangeli affidato poi alla voce di Lucilla Galeazzi e agli strumenti dell’UmbriaEnsemble.

C’è anche un’altra componente che si innesta invece sul tronco della migliore canzone d’autore, dalle “piccole eccellenze sonore” di Massimo Donno a ‘Respira’ di Erica Boschiero, cantante di grande personalità, dotata anche di una voce meravigliosa, che segue da sempre la propria strada, incurante di altre sollecitazioni e con una forte attenzione per le tematiche ambientali e sociali. In questa direzione si pongono anche le più recenti prove di Claudia Crabuzza e Patrizia Cirulli, altre belle e forti personalità artistiche che hanno inteso omaggiare, nel linguaggio a loro più consono, due figure esemplari della cultura nazionale come Grazia Deledda e Eduardo de Filippo. Non mancano proposte più di confine come ‘Jastemma’ degli ‘A67 con quel meraviglioso connubio di musica, letteratura e pittura, peraltro altra Targa Tenco per l’album in dialetto. E continuiamo a guardare alla cosiddetta canzone d’autore, soprattutto quando non è mossa dalle smanie e frenesie che sempre più investono l’ambiente: è il caso di ‘Curami l’anima’ di Elisa Ridolfi, al suo esordio come cantautrice a oltre 11 anni dal suo precedente disco come solista.

Approfondendo la riflessione sulla collana “Crinali”, che ci ha “portato in dono” dieci Targhe Tenco e tre Premio Loano, e numerosi piazzamenti sul podio in entrambi i concorsi, si può dire vinta solo in parte la scommessa sottesa alle sue pubblicazioni.
E più che di errori nostri -che non sono mancati- nella scelta di qualche titolo, si tratta ormai di un problema strutturale che sta investendo il mondo della musica, sempre più obbligato da logiche per molti versi devastanti determinate dall’incontro e intreccio di social e digitale. Noi non abbiamo alcun interesse per dischi che si giustificano soltanto come innesco di una girandola di cose finalizzate all’attività concertistica dell’artista, quale che sia ciò che poi si canta o suona su un palco: ecco un disco inteso solo come un gadget promozionale non ci interessa per nulla, facciamo decisamente un altro mestiere. Da qui la decisione di una drastica riduzione delle uscite, iniziata già quest’anno, a vantaggio di una riflessione critica sulla musica con più spazio per la saggistica. Tra gli ultimi titoli cito il volume su Sergio Bardotti, a cura di Stefano La Via e Claudio Cosi, quello di Andrea Podestà sul secondo Battisti, accompagnato peraltro da un magnifico CD in cui Marco Sabiu e Gabriele Graziani si sono cimentati nella rivisitazione di alcuni brani della conturbante coppia Battisti-Panella, e ancora quello di Massimo Pasquini che con una scrittura volutamente lieve ci racconta la densa e ricchissima vicenda dei trent’anni di storie dei Tetês de bois.

Per quanto riguarda la selezione di autori stranieri, a quale scuola di critica musicale si fa più riferimento? Accenno un esempio: avete più interesse negli agli autori di lingua inglese? Oppure negli autori di lingua francese? Oppure di altre lingue?

Qui, per quanto ci riguarda, siamo nel campo della più ampia casualità. Per mia evidente incompetenza -sono uno storico della filosofia, non un musicologo- ci rimettiamo alle proposte di amici e studiosi come è successo, ad esempio, con l’edizione italiana di ‘Musica ed estasi’ di Jean During che ci ha proposto Giovanni De Zorzi, assumendosene la curatela. Ma le traduzioni, anche in ragione di costi supplementari, sono ancora poca cosa nell’economia complessiva delle nostre attività.

Qual è il titolo più interessante che è stato pubblicato fino ad oggi? Perché?

Potrei dire tutto quanto o, per lo meno, quasi tutto … Non penso però di fare torto a qualcuno se dico che due titoli spiccano sugli altri: l’opus magnum di Roberto De Simone sulle tradizioni campane, ‘Son sei sorelle. Canti e rituali della tradizione in Campania’, e la pubblicazione, per merito e a cura di Maurizio Agamennone, delle registrazioni di Ernesto de Martino e Diego Carpitella nel Salento del 1959, all’origine delle riflessioni avanzate poi ne ‘La terra del rimorso’. Senza entrare nel merito della loro straordinaria importanza storico-culturale nonché della loro bellezza da un punto vista musicale, questi due titoli indicano a sufficienza l’indolenza della grande editoria italiana: le registrazioni salentine sono del 1959 e, malgrado il clamore suscitato da quella ricerca e il continuo parlare di pizziche e tarante, nessuno fino al 2006 aveva pensato di pubblicarle. E lo stesso dicasi per i sette microsolchi di De Simone, pubblicati nel 1979 dalla EMI all’interno di un’iniziativa sostenuta dalla Regione Campania e mai più ristampati. Ma forse proprio in questa indolenza trova una ragione d’essere l’attività di piccoli editori come Squilibri.

Lei è il coordinatore e responsabile della Rete degli archivi sonori di musiche di tradizione orale. Mi può spiegare in che cosa consiste il progetto?

La Rete degli archivi sonori di musiche di tradizione orale è un progetto estremamente ambizioso nato con il dichiarato intento di rendere pienamente fruibile uno straordinario giacimento culturale lavorando lungo due direzioni: da una parte, fare emergere il lavoro di tanti ricercatori, il più delle volte sconosciuti persino agli addetti ai lavori, che in solitaria hanno continuato a preservare la memoria di questi repertori anche in anni di colpevole distrazione da parte delle istituzioni proposte; e dall’altra rendere pienamente accessibile una mole enorme di rilevazioni sonore e fotografiche conservate in strutture pubbliche, spesso così gelosamente da risultare di fatto inaccessibili e, pertanto, “segregate”, per non dire del tutto abbandonate a se stesse. E se, sul primo fronte, si sono potute conoscere ed apprezzare le straordinarie raccolte sul campo di ricercatori come Giovanni Rinaldi, Dario Toccaceli e Valentino Paparelli, autori rispettivamente delle più vaste campagne di ricerca sul campo che siano mai state realizzate nella Puglia settentrionale, nelle Marche e in Umbria, dall’altro sono state finalmente restituite a una fruizione pubblica ricerche di fondamentale importanza come quelle coordinate da Annabella Rossi e Roberto De Simone sui carnevali campani o, coordinate ancora da Annabella Rossi, sul tarantismo in Campania che, a giudicare dalle condizioni in cui versavano i nastri, non credo che nessuno in precedenza abbia mai avuto modo di consultare.
Avviato nel lontano 2007 in Puglia, il progetto si è progressivamente esteso ad altre regioni avendo come proposito immediato quello di “riportare a casa” la documentazione relativa a una parte significativa della memoria culturale dei diversi territori, facilitandone la consultazione ad appassionati e studiosi in strutture pubbliche come le sedi regionali dell’Archivio di Stato e della Biblioteca Nazionale. Realizzato in collaborazione con le principali strutture di settore, tra le quali l’Accademia nazionale di Santa Cecilia e il Centro di dialettologia e tradizioni popolari di Bellinzona, la Rete offre un’ampia rappresentazione in chiave diacronica delle tradizioni sonore del nostro paese dagli anni Cinquanta del secolo scorso fino ai nostri giorni. Sei finora gli archivi avviati in Abruzzo, Basilicata, Campania, Marche, Puglia e Umbria, alcuni ancora sprovvisti di una sede fisica, mentre presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma è stata realizzata la teca centrale che consente anche ricerche comparate tra i diversi archivi, altrimenti consultabili solo in relazione a fondi e raccolte di quello specifico territorio. Di grande rilievo l’approdo alla Biblioteca Nazionale che mi pare il suggello definitivo dell’importanza culturale di queste forme dell’espressività popolare che, nella percezione comune, sono ancora lontane dall’essere considerate come dovrebbero, ossia come una componente fondamentale della nostra storia e identità culturale.

Più concretamente, come è strutturato il progetto?

Ogni archivio è stato avviato con una preliminare ricognizione sugli archivi pubblici e privati esistenti in regione. I riversamenti in digitale e i più rari interventi restaurativi dei supporti originari sono stati poi eseguiti presso laboratori specializzati e i lavori di catalogazione sono stati affidati a redazioni composte, per ogni ambito regionale, da esperti ferrati tanto nel campo linguistico quanto in quello musicale. Non poche volte la catalogazione è stata fatta dagli stessi autori delle ricerche, i soli capaci di restituire appieno i contesti, le motivazioni e i particolari relativi al proprio lavoro sul campo. Per ogni archivio sono state attivate consulenze scientifiche con alcuni dei più stimati etnomusicologi italiani: in particolare, Maurizio Agamennone per la Puglia, Nicola Scaldaferri per la Basilicata, Raffaele Di Mauro per la Campania, Valentino Paparelli per l’Umbria, Piero Arcangeli per le Marche, mentre in Abruzzo si è resa superflua la nomina di un consulente scientifico in quanto la redazione annovera i principali ricercatori e studiosi delle tradizioni locali, tra i quali Domenico Di Virgilio, Carlo Di Silvestre, Enrico Grammaroli, Omerita Ranalli e Gianfranco Spitilli.
Due le modalità di fruizione: parziale online (max 40 secondi per i file audiovisivi e sonori) e integrale nelle sedi fisiche dell’archivio. La banca dati, suddivisa in archivi regionali, si articola in fondi relativi agli autori delle ricerche (ad esempio il Fondo Leydi) o alle istituzioni presso le quali le ricerche sono conservate (ad esempio il Fondo del Museo delle genti d’Abruzzo o del Museo delle Arti e Tradizioni Popolari). Ogni fondo è a sua volta suddiviso in raccolte relative a un’area geografico-culturale (ad esempio La Conca ternana) o anche a singoli paesi (Carpino), repertori (I canti della notte dei fornai di Toritto), strumenti (l’organetto nella Valle d’Itria) e interpreti (Niceta Petrachi detta la Simpatichina) particolarmente rappresentativi di una determinata tradizione musicale.

Il progetto è aperto a collaborazioni?

Con circa 12.000 documenti già acquisiti, catalogati e immessi nel sistema di fruizione e con altrettanto materiale ancora da catalogare, il progetto si configura come una delle iniziative di maggior rilievo realizzate nel nostro paese nell’ambito della valorizzazione dei patrimoni immateriali dopo la ratifica della relativa Convenzione UNESCO da parte del Parlamento Italiano. Risultati estremamente lusinghieri che sarebbe stato impossibile raggiungere senza la vasta rete di collaborazioni con soggetti pubblici e privati avviata in questi anni: la Rete degli Archivi Sonori di Musiche di Tradizione Orale è un progetto programmaticamente in fieri e aperto ad ogni possibile collaborazione.
Promosso dall’associazione Altrosud d’intesa con la Direzione Generale per gli Archivi, con il sostegno tecnico di Squilibri per quanto riguarda l’infrastruttura informatica e il tracciato catalografico, la collaborazione di numerose strutture di settore e il contributo di alcune regioni, il progetto ha avuto un andamento altalenante anche per l’avvicendarsi di persone diverse nella direzione delle istituzioni di riferimento. La pandemia ha determinato altri intoppi e rallentamenti anche da parte nostra ma contiamo di riprendere presto il cammino, avendo peraltro già avviato altri tre archivi relativi alla Calabria, al Lazio e alle comunità albanofone d’Italia.

Per concludere l’intervista, qualche segnalazione meritevole dei prossimi titoli che avete in cantiere?

Innanzi tutto il prosieguo della neonata collana “Come suona la Toscana” avviata per iniziativa di Maurizio Agamennone che, in organico all’università di Firenze, ha pensato bene di assolvere ai suoi compiti di studioso con la costituzione di un gruppo di ricerca votato a scandagliare e ricostruire, senza distinzioni di genere, la complessa realtà culturale della musica in Toscana: quattro i titoli usciti finora, con altri due già in preparazione. Ancora, entro la fine dell’anno, la ristampa, da lungo attesa anche fuori i confini nazionali, del capolavoro di De Simone. A breve uscirà poi un intenso e appassionato ricordo di Gianmaria Testa per racconti, canzoni originali e fotografie, ad opera di Guido Festinese, Paolo Gerbella e Maurizio Logiacco. E, infine, il varo di una nuova collana di narrativa, ma riservata a musicisti, che siamo molto contenti di aprire con il romanzo di esordio di un grande cantautore come Pippo Pollina, da sempre mosso da una forte sensibilità per le tematiche civili e una chiara predilezione per la narrativa in musica.

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