Das Rad ‘Adios al Futuro’

(Discus Music 2020)

La versione del rock progressivo proposta da questo album è in linea con lo stile della Discus e, in particolare, con quello della sua anima: Martin Archer. Archer suona qui i fiati e il basso synt e a completare il trio figurano Nick Robinson alle chitarre e Steve Dinsdale alle percussioni. Tutti suonano anche tastiere e smanettano all’elettronica. Gli 8 brani sono tutti strumentali e a cominciare dalla fanfara iniziale di Inside Reverse il futuro è congedato con un’esplicita solennità non priva di mistero ed episodi di drammatica consapevolezza, sottolineata dai toni acidi della chitarra distorta, a bucare l’andamento ondeggiante articolato dai bassi. Quando il tempo si fa più incalzante (Buzz Line) e la ripetizione di un’ideé fixe – uno dei marchi di fabbrica di Archer – diventa un insistente tessuto su cui si ricamano i riff acuti dei sax, il nervosismo pervade l’atmosfera sonora, temperato soltanto dalla speranza infusa dalla chitarra acustica. La ricerca sonora si muove costantemente tra lo spazio elettronico e quello acustico, fondandosi sulla pulsione ricavata dalla collaborazione di basso e batteria. Deuce of Gears è un momento di esitante riflessione sul da farsi; Adios al Futuro ci sprofonda in anni ’70 trasformati da ciò che verrà dopo, in un marasma sonoro che, sempre sorretto da un ritmo costante, si fa via via più denso di strati. In Eisblume manca solo la voce di Gilmour o Waters per riportarci ai Pink floyd dei ’70. Al loro posto, il sax di Archer ci dice che siamo in un’altra epoca, non meno sofferta e incerta; forse un po’ meno pronta a sperare qualcosa di davvero nuovo. Rothko Strobe/Another Place ci riconduce nel marasma da cui emerge qualche soffio espressivo di sax, mentre Oslo Star riparte con un riff suggestivo ripetuto, sorretto da un ritmo convinto, che non cede anche quando la narrazione melodica va a complicarsi inacidendosi a metà, per quasi accennare a un’atmosfera dance nel finale. Si finisce con Tiefes Blau, un profondo blu, lungo, forse un po’ troppo, in cui – al di là delle pause, e dei momenti di stasi – a dominare e a restare come un tormentone è la malinconia della fisarmonica incastonata sui riff del sax baritono (ma non solo) sullo sfondo del rumore della chitarra distorta.
Un album interessante, ma, per quanto assai apprezzabile, non un capolavoro.

Voto: 7

Alessandro Bertinetto

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