Quattro Chiacchiere Digitali con Alessandra Novaga

Alessandra Novaga è una interessante musicista italiana, dotata di un potente carisma e di uno stile espressivo raffinato, che frequenta i lidi kathodici dalla sua prima uscita discografica ‘La Chambre des Jeux Sonores’. Da cosa nasce cosa, e dall’ascolto della sua vita “al fonografo” mi è venuta l’idea di proporle un’intervista dove ragionare sulle sue produzioni e sul suo pensiero musicale. Alessandra Novaga ha accettato con piacere, e questo è il risultato della chiacchierata, o, per rinverdire i fasti della rubrica di interviste, delle Quattro Chiacchiere Digitali.

1. Quali sono le tue origini musicali? O meglio, la riformulo: hai scelto tu o ti ha scelto la chitarra?

Ho iniziato a suonare a dieci anni. L’infanzia è il momento più prezioso della vita di una persona, te ne accorgi quando non sei più troppo giovane. E’ quello il momento in cui nella tua immaginazione si fa strada l’immagine di chi vorrai diventare. La chitarra, che ho scelto io, si, ma senza un trasporto particolare, mi ha solo dato la possibilità di fare degli incontri, già allora, che mi hanno fatto capire che attraverso lo studio della musica, avrei aperto i miei orizzonti, avrei avuto la possibilità di capire chi ero, avrei potuto fare incontri e visitare altre realtà. E così è stato.

2. Sei nata o sei diventata solista?

Ho suonato la chitarra classica per trent’anni e, contrariamente a quanto succede per quasi tutti gli altri strumenti, in ambito classico intendo, dove per essere solisti si devono avere ‘davvero’ delle doti e un talento particolari, noi chitarristi siamo tutti solisti, non certo perché siamo tutti dei geni, ma per via del repertorio che sostanzialmente è da solisti. Non c’è molta musica da camera con chitarra, se facciamo un confronto con gli altri strumenti, e da sola non giustificherebbe un’attività concertistica. Quindi sono ‘diventata’ solista, e sento che comunque rimane la mia condizione naturale. Certo mi piace molto collaborare con altri musicisti, anche se accade di rado. Ho avuto un’intesa splendida ad esempio con Patrizia Oliva, Elena Kakaliagou, Massimo Falascone, Elliott Sharp. Un musicista con cui ho però un progetto in duo in cui credo molto, sta anche per uscire un nostro lavoro per l’etichetta greca Coherent States, è Stefano Pilia, musicista che amo moltissimo.

3. La conoscenza con Kathodik è avvenuta con il tuo primo disco che esce per Setola di Maiale ‘La Chambre des Jeux Sonores’ (recensito da Marco Carcasi QUI). Qual è stata l’idea dietro a questo disco?

‘La Chambre des Jeux Sonores’ è il mio primo disco in solo con la chitarra elettrica, ed è del 2014. Dopo trent’anni trascorsi esclusivamente suonando la chitarra classica, e quindi interpretando opere in notazione esatta, mi sono affacciata su un altro territorio. Ho chiesto a cinque compositori, di estrazione completamente diversa, Travis Just, Sandro Mussida, Paula Matthusen, Francesco Gagliardi e Vittorio Zago, di scrivermi cinque pezzi per chitarra elettrica, in partitura grafica. Sai bene che il termine ‘partitura grafica’ include una moltitudine di tipologie, abbiamo quelle in cui ci sono solo immagini, foto, suggestioni visive insomma, o quelle in cui abbiamo delle istruzioni, quindi più testuali che grafiche, e poi altre meno catalogabili. La mia necessità, in quel momento, era di uscire dal concetto di ‘notazione esatta’ e esplorare altre modalità di relazione con i compositori. Le mie richieste erano sostanzialmente tre, che non fossero in notazione esatta – no pentagrammi – che ci fossero delle indicazioni sulle sonorità, sui timbri, che era una cosa nella quale io ancora brancolavo nel buio, e che mi dessero libertà di improvvisare all’interno. Essendo cinque compositori di estrazione completamente differente, ho avuto cinque pezzi completamente diversi, anche per la modalità di scrittura. Il più grafico di tutti è quello di Francesco Gagliardi, che infatti non è un musicista ma ha una formazione teatrale e filosofica, ed è un compositore di performance. La partitura è la foto di un paesaggio nebbioso scattata da un treno, l’unica indicazione è: ‘One drone, any drones, any durations’. Dopo diversi esperimenti l’idea di come farlo mi è venuta mentre attraversavo una strada a NYC qualche giorno prima di eseguirlo per la prima volta. Per me ‘questo’ è stato illuminante. Finalmente uscivo dalla schiavitú dello strumento, della pratica strumentale. L’idea nasceva per strada e non sulla sedia!

4. Seconda opera ‘Movimenti Lunari’ (recensita da Marco Carcasi QUI)
Come è nata l’idea dell’album? Come è stata l’esperienza con la label Blume?

Movimenti Lunari nasce da un’intuizione molto felice di Fabio Carboni, il produttore di Blume. Dopo avermi sentita suonare dal vivo ‘La Chambre Des Jeux Sonores’, che includeva i due pezzi che compongono ‘Movimenti Lunari’, In Memoria di Sandro Mussida e Untitled, January di Francesco Gagliardi, mi ha chiesto di provare a registrarli in due versioni più lunghe, più dilatate. L’ho fatto e in effetti in questo modo i due brani trovano la loro estensione più naturale. Ancora adesso per me è un piacere enorme suonarli dal vivo, e ogni volta sono diversi.

5. Che cos’è per te l’improvvisazione?

Io non ho una cultura da improvvisatrice, come ho già detto il mio background è rigidamente classico, nel senso che per trent’anni non ho fatto neanche un passo fuori da quel recinto. Non mi sono mai domandata cosa sia l’improvvisazione. Molti ci trovano connotazioni socio politiche o cose del genere. Ho letto il bellissimo libro di Derek Bailey in cui si dibatte molto sull’argomento. Io posso solo dirti che per me l’improvvisazione è stata fondamentale per ‘liberarmi’ dagli schemi a cui ero abituata. Ho avuto la fortuna di avere dei maestri che mi hanno insegnato molto ogni volta che ci ho suonato insieme e che ringrazio per avermi dato fiducia nonostante fossi una neofita, e cito tra gli altri Elliott Sharp, Massimo Falascone, Gianni Mimmo, Gianni Gebbia, Andrea Centazzo.
Però non potrei mai occuparmi solo di improvvisazione, penso che per me funziona meglio quando lascio passare un po’ di tempo tra un episodio e l’altro, altrimenti sento che tenderei a ripetere degli schemi, questo probabilmente perché di fondo non sono un’improvvisatrice.

6. Nell’intervista che hai concesso alla fanzine Solar Ipse ad un certo punto vieni accostata al musicista Loren Mazzacane Connors. Ti ci ritrovi? Quali artisti pensi ti abbiano influenzata?

Per me è un onore enorme essere accostata a Loren Connors perché per me lui è una luce, ma in generale penso che troppo spesso i critici abbiano la tendenza a trovare connessioni con altri musicisti invece di analizzare l’unicità di quella o quello di cui stanno parlando, e non mi è molto chiaro il motivo. Io, per esempio, sono stata molto, troppo spesso accostata a chitarristi di cui non avevo neanche mai sentito parlare! Sono sotto l’influenza costante di altri artisti, non necessariamente musicisti, non sarei quella che sono e non farei la musica che faccio se così non fosse, e questo penso valga per tutti.
E cambiano, per fortuna, nel tempo cambiano.
La lista sarebbe troppo lunga…

7. Dedichi la tua opera successiva ‘Fassbinder Wunderkammer’ al regista tedesco Rainer Werner Fassbinder (recensita da Marco Carcasi QUI). Come nasce l’idea?

Ho sempre amato il cinema di Fassbinder, ho visto per la prima volta ‘Veronika Voss’ quando avevo diciassette anni. Ho sempre amato tutti i suoi film, nella loro interezza, senza però concentrarmi troppo sulla questione musicale. Nel 2000 però, in un negozio di dischi di Berlino, ho trovato un disco con le colonne sonore di Peer Raben, che ha lavorato praticamente per tutti i film di Fassbinder, e l’ho adorato. L’anno dopo, a Milano, il Teatro dell’Elfo, che in passato aveva messo in scena alcuni meravigliosi testi di Fassbinder, ha organizzato un festival/tributo al nostro Rainer Werner, invitando molti attori che hanno lavorato con lui. Sono stati davvero giorni emozionanti, e tra gli invitati c’era anche Peer Raben. Una di quelle sere ho assistito a un memorabile concerto di Ingrid Caven che, accompagnata da un pianista, ha cantato molte sue canzoni. Così ho iniziato a lavorare su alcuni pezzi estrapolati dai film e ho provato a ricreare un paesaggio musicale filtrato dalla mia interpretazione, e così è nato ‘Fassbinder Wunderkammer’.

8. Arriviamo ad oggi; è di questi giorni la tua nuova fatica discografica ‘I should have been a gardener’ dedicata al regista inglese Derek Jarman e al giardino a cui si dedicò negli ultimi anni della sua vita (recensione di Marco Carcasi QUI). Da dove sei partita per l’album? Che cosa hai cercato nell’opera e nella visione di Jarman?

Sono partita dal giardino, dal mio amore per il giardinaggio e tutto quello che ci gira intorno, soprattutto la letteratura perché, ahimé, io un giardino mio non ce l’ho, a parte gli ottanta vasi che stipano il mio balconcino e due davanzali in città. E’ per questo motivo che mi sono imbattuta in ‘Modern Nature’, un diario che Jarman ha iniziato a scrivere dopo aver scoperto di essere sieropositivo all’HIV e dopo aver comprato Prospect Cottage, un piccolo cottage nero e giallo, nel Kent, situato tra il mare e una centrale nucleare, immerso in un paesaggio lunare che sembra di stare ai confini del mondo. Lì, in mezzo a ciottoli, Derek Jarman ha creato uno dei giardini più sorprendenti e poetici del Novecento, ancora oggi citato dai più più grandi paesaggisti di tutto il mondo. Il diario parla tantissimo del suo giardino, ma parla anche di molto altro dato che Jarman è stata una delle figure più influenti della cultura inglese, spaziando da tematiche queer e politiche a quelle artistiche in senso lato, e poetiche. Parla di vita, di morte, di sesso, di amore, di malattia, di gioia. Io mi sono letteralmente innamorata di quest’uomo al punto da avvertirne la presenza. Il cinema già lo conoscevo, ma tante cose di lui non le sapevo. Ho letto tutto quello che ha scritto, sono andata a Prospect Cottage, esperienza per me fortissima, e a un certo punto è arrivata l’ispirazione per questo disco, che è uscito per Die Schachtel e che mi sta dando molta gioia. Cosa di cui sono particolarmente felice e grata, è l’appoggio che ho avuto da Howard Sooley, grande fotografo e grande amico di Jarman, che ha creduto nel progetto e mi ha permesso di utilizzare molte fotografie che raccontano i giorni in cui i due si sono frequentati nell’ultima parte della vita di Jarman, e lo splendido lavoro che Bruno Stucchi, uno dei due produttori di Die Schachtel, ha fatto creando un concept grafico che è incredibilmente aderente alla mia idea musicale.

9. Ritornando nel quotidiano, a bruciapelo, i tuoi ascolti giornalieri?

Ascolto molta radio, le mie stazioni preferite per la musica sono WFMU e France Musique. Ascolto poi molta musica classica, soprattutto barocca, Bach più degli altri. Billie Holiday, Le vecchie canzoni francesi, Michael Tariverdiev, molta musica per quartetto d’archi, una delle mie formazioni preferite, lieder di Schubert, Schumann, Wolf e chissà quante altre cose!

10. Solita ultima domanda rituale: progetti futuri?

Al momento sono completamente svuotata. Non do per scontato che escano altri dischi, usciranno se ci saranno le idee, comunque, in genere, passano almeno tre anni tra l’uno e l’altro. Sta però per uscire un lavoro di cui sono molto felice, registrato un pò di tempo fa, con Stefano Pilia. Covid permettendo suonerò live ‘I Should Have Been a Gardener’ e dovrei avere anche delle date con Stefano.
Ma di sicuro mi dedicherò al mio giardino d’appartamento, alle mie letture e al mio studio.

Link: Sito Alessandra Novaga