Paolo Bragaglia Intervista

Ottava puntata della rubrica Chi fa da sé fa per tre: Paolo Bragaglia.

Di Marco Paolucci

uccio12@hotmail.com

18/06/2013 Nuova puntata della rubrica chi fa da sé fa per tre: Paolo Bragaglia, musicista che da parecchi anni si dedica alla ricerca sulla contaminazione tra musica elettronica e acustica, passando dalla New Wave degli esordi fino all’attuale progetto Synusonde che lo sta portando verso nuove frontiere dell’interazione strumentale. Interazione, confronto e a volte scontro che il nostro porta in scena oramai da qualche anno come direttore del festival di musica elettronica e sperimentale, che si svolge ogni estate nella città di Ancona, intitolato Acusmatiq, evento dove abbinate a riflessioni teoriche con studiosi e ricercatori di fama internazionale avvengono performance e concerti di artisti noti e meno noti della scena elettronica locale ed internazionale. La curiosità e la voglia di fare le sacrosante quattro chiacchiere digitali ci ha portato ad intervistarlo, e a porre al vostro giudizio i risultati dell’intervista:  

 

  1. Quali sono le tue origini come musicista? In particolare come è nata l’idea di suonare il sintetizzatore?

Le mie origini come musicista sono tra le più ordinarie: il classico gruppetto postscolastico tra amici in età preadolescenziale. All’epoca, suonavo la chitarra, una semiacustica Eko più vecchia di me che amplificavo con la radio a valvole di famiglia (forte, no?); di gruppo in gruppo attraversai tutta la tempesta punk, post punk/new wave, passando poi ad un vero ampli per chitarra della Fbt ed ad una Fintocaster fabbricata sempre nelle Marche (l’industria marchigiana degli strumenti era allora fiorentissima e le Fender vere le vedevi, se andava bene sui giornali).

Devo dire che i gruppi nei quali suonavo all’epoca (erano i primissimi anni ‘80,  vorrei ricordare i Revox e gli Tzar’s Revox) avevano sempre una spiccata attitudine verso la sperimentazione e suonavano esclusivamente brani originali. 

Le atmosfere andavano dalla cold wave più sperimentale sfociando a volte verso una certa forma impro/industrial. Usavamo con gli Tzar’s Revox anche delle percussioni elettroniche che aggiungevano una certa dose di “aliena instabilità” ai suoni del gruppo. Il primo concerto del gruppo (eravamo imberbi adolescenti) fu il mitico “Deadly Boys” nell’81 (o 82, forse), mega concertone al Palazzo del Mutilato di Macerata che vedeva tutti i gruppi punk/postpunk/wave della zona.

Ad ogni modo, l’ascolto dell’elettronica che sempre più massicciamente veniva usata nella New Wave, la possibilità di sondare un numero quasi infinito di suoni quale sembrava essere il mondo della sintesi sonora (nasceva l’industrial music ed in Germania si facevano cose davvero affascinanti in quegli anni) e la cognizione che non ero poi un gran chitarrista mi fecero fare il balzo verso l’elettronica, nel 1983, quando comprai (con immani sacrifici) il mio primo synth, un piccolo, bellissimo monofonico Yamaha, il CS5 (che ancora oggi gelosamente conservo e utilizzo).

  1. Praticamente hai risposto alla  domanda successiva ma approfondisci ancora se puoi e vuoi il perché della scelta di questo strumento e della tua passione per l’elettronica, genere nel quale pubblichi prevalentemente i tuoi lavori?

Come dicevo sopra, fu determinante la prospettiva di potermi sganciare dai cliché più legati al rock, creando i miei suoni ed iniziando a pensare la musica a partire dal timbro.

In effetti è proprio questo quello che considero determinante nel demarcare la differenza tra l’uso del mezzo elettronico e lo strumento tradizionale: la possibilità di comporre non solo con le note ma  anche (e spesso soprattutto) con i timbri sonori che puoi creare alla bisogna. In questo modo la composizione è a volte un’esperienza esaltante e a volte frustrante ma può sempre riservare sorprese straordinarie!

  1. Veniamo alla composizione: come nascono i tuoi brani?

Da una suggestione, sonora visiva letteraria o da una vibrazione emozionale. Non ho mai posto limiti al tipo di scintilla capace di ispirare un’idea musicale; so che è un processo misterioso

un flusso che puoi solo arginare, irreggimentare ma che mantiene sempre una bella parte di imponderabilità. Devo dire che il più delle volte la cellula iniziale del brano si presenta in testa in una forma piuttosto vaga ma già dotata di un “carattere” emotivo, un colore piuttosto netto.

  1. Altro aspetto: a chi ti ispiri quando componi? Quali sono i tuoi “cattivi maestri”?

Devo dire che cerco sempre di trovare fonti di ispirazione lontano del genere di riferimento (ammesso che ve ne sia uno definito): nel caso di Synusonde l’ispirazione più

forte è senz’altro data dalle avanguardie europee del ‘900, dalla musica antica, e da certe suggestioni di elettronica kraut e glitch. A volte lascio che affiorino le mie radici new wave.

Non posso dire di avere dei riferimenti precisi in assoluto, dipende molto dal periodo…

  1. Con chi vorresti collaborare?

Attualmente sarei felice di collaborare con un quartetto di archi che avesse un suono molto “novecentesco”. Ho iniziato di recente a collaborare  con un amico attivo nell’ambito del folklore e della musica antica, Roberto Lucanero che suona in un nuovo progetto l’organo portativo, un antico (ed altamente simbolico) strumento medioevale ormai largamente in disuso da diversi secoli. C’è un pianista, Thollem McDonas che è strepitosamente bravo, uno dei più geniali improvvisatori che abbia mai sentito, una collaborazione con lui mi piacerebbe davvero tanto.

  1. Parlami del progetto ‘Yug’ (la cui uscita è stata recensita qui).

‘Yug’  è stato un lavoro lungo e complesso, del quale sono molto soddisfatto. È l’album di esordio di Synusonde, uscito per Minus Habens, che è il progetto nato per cercare una sintesi tra l’elettronica ed uno strumento acustico importante come il pianoforte. Il tutto è scaturito dall’incontro con Matteo Ramon Arevalos, eccellente pianista e compositore attivo nella classica e nella contemporanea. Il lavoro di produzione e scrittura di ‘Yug’ è durato un bel po’ ed il disco è frutto di grande selezione (ho scartato molto materiale già inciso).

Come dicevo, l’idea di base del disco è proprio quella di costruire delle tessiture elettroniche di ampio respiro che riescano ad armonizzarsi con il piano e tutto il mondo di colori sonori che lo connotano, in maniera il più possibile fresca ed inedita. Esistono molti altri progetti di commistione tra piano ed elettronica , ma nel caso di ‘Yug’ era nostra fermissima intenzione cercare di costruire un suono dalla forte identità, diverso da quello che a mio giudizio spesso si adagia su certi cliché un po’ minimal/ambientali. Abbiamo  dato molto risalto all’anima percussiva dello strumento, sulla scorta anche di importanti suggestioni che vengono da tanta musica del ‘900 ed anche dal minimalismo “storico”. Posso dirti che abbiamo cercato di metterci delle ispirazioni davvero disparate, da Stravinsky a Messiaen, passando per Steve Reich ed il glitch. Il tutto ovviamente stilizzato, rimasticato e filtrato da una sensibilità un po’ incline ad una forma di postromanticismo molto dilatato che ci accomuna.

Attualmente anche per le difficoltà logistiche dovute alla distanza, Matteo ha lasciato la collaborazione con il duo che attualmente sto portando avanti con un giovane pianista marchigiano: Leonardo Francesconi.

  1. Come vedi la scena musicale italiana?

Credo che a dispetto della cronica mancanza di soldi-strutture ed infrastrutture ci sia, specialmente da un punto di vista della musica alternativa-indipendente-di ricerca, in questi tempi una notevole vitalità rispetto al passato. Forse anche grazie all’aiuto delle forme di aggregazione comunicazione (e di produzione) offerte dalle nuove tecnologie.

 Negli ultimi anni vedo l’apertura di molti più spazi (piccoli ed indipendenti, beninteso) aperti a musica “di nicchia” di quanti non ce ne fossero, poniamo 10, 20 anni fa. E questo è un gran bene, naturalmente. Poi sui generi praticati vedo una gran varietà, una scena “indie” che di tanto in tanto strizza l’occhio ad una dimensione “pop” più ecumenica ed anche un notevole incremento di situazioni con una forte attitudine impro-sperimentale, più libere e liquide nell’assetto dei vari gruppi, soprattutto per quanto riguarda l’elettronica. Quello che non mi piace sono invece i compartimenti stagni fra generi, in linea generale.

  1. Come vedi la scena musicale internazionale?

Io ho la necessità di uscire dal mondo, di tanto in tanto, per potermi dedicare ai nuovi progetti e seguirne in maniera il più nitida possibile le idee guida. A quel punto è essenziale per me evitare di esser “bombardato” dal marasma di informazioni su trend, nuove uscite e novità che tipicamente possono investire l’uomo contemporaneo connesso alla rete. Mi trovo in un periodo in cui sto sviluppando due nuove uscite, non sono quindi proprio “up to date” e non saprei davvero dirti qualcosa di aggiornato e degno di considerazione. Comunque sto ascoltando “America” dei Dan Deacon, il disco di Belbury Poly “the Belbury Tales”, la colonna sonora di “Berberian Sound Studio” degli sfortunati Broadcast, l’ultimo, notevole Autechre ed anche “Delta Machine” dei Depeche Mode, ricco di gran bei suoni “modulari” ed alcune belle canzoni. “AMOK” degli Atoms for peace è un bel disco anche se non aggiunge granché ad “Eraser”, lo splendido esordio solista di Thom Yorke di qualche anno fa. L’impressione che ho, da qualche anno, è che la grande promessa rappresentata dall’elettronica dei primi anni di questo secolo si sia un po’ dissolta. Intravedevo da una certa elettronica una forma di innovazione che immaginavo potesse contaminare a più livelli la produzione musicale “indipendente” ( ad esempio i Radiohead furono davvero  grandi pionieri in tal senso quando con “Kid A” ibridarono la loro identità con le suggestioni del mondo Warp), ma mi sembra che fatte salve le solite eccezioni questa spinta propulsiva si sia pressoché esaurita. i cliché si sono riaffermati in fretta. E il mondo continua ad essere affollato di cloni di Fennesz, di cuginetti di Alva Noto, di nipotini di Aphex Twin e di epifenomeni di coordinate stilistiche e modi di fare codificati ormai molto tempo fa.  Il dubstep è senz’altro un’evoluzione à la page, ma non mi piace affatto per la carica di arida forzatura tecnica connaturata ad esso.

  1. Come è nata l’idea di Acusmatiq? Si può dire che in questo modo ti metti dall’altra parte del palcoscenico; condividi questo punto di vista? Ritieni che il festival di cui sei direttore artistico possa essere una buona vetrina per le scene di cui sopra?

Molto semplicemente l’idea di partenza, nell’ormai lontano 2006 fu quella di dar vita ad un festival che riuscisse a sommare in sé diverse anime con il comune denominatore dell’utilizzo della tecnologia (vintage o no) nell’elaborazione di peculiari linguaggi musicali. È per questo che in maniera molto libera in questi sette anni abbiamo ospitato delle cose diversissime, eppure, a mio giudizio, legate da un filo invisibile. Molta parte del favore riscosso dal festival risiede, secondo me proprio nella libera contrapposizione tra modi apparentemente molto diversi, ma che comunque sono capaci di creare fecondi cortocircuiti e contrasti illuminanti. Importante è stato anche l’apporto di momenti performativi in senso più propriamente teatrale che assommassero elementi espressivi propro del linguaggio musicale elettronico ed elettroacustico. Dalla musica contemporanea (Ottaviucci, Antongirolami, Gentili, Simonini) a quella industrial (Chris & Cosey, Alexander Hacke, etc.) passando per Biosphere o Yann Tiersen in formato esclusivamente elettronico (una commissione di Acusmatiq) oppure per Howie B e tanti altri, Acusmatiq non ha fatto altro che cercare commistioni che fossero il più possibile illuminanti ed entusiasmanti. Il festival ha sempre cercato di essere una vetrina anche per produzioni  ancora poco conosciute, e nelle mie intenzioni spero che lo diventi sempre di più.

  1. La classica domanda finale a cui non ci si può esimere: come vedi il tuo futuro, musica, organizzazione di eventi, tutto il resto?

La musica è da sempre una parte talmente importante della mia vita che credo sarà quella di essere condannato a stare inchiodato al mixer studio per il resto dei miei giorni… ma senz’altro spero che i progetti che sto portando avanti possano consolidarsi, in special modo all’estero dove è magari possibile fare anche qualche data live in più rispetto alla nostra Italia. Presto dovrebbero concretizzarsi anche dei progetti di colonne sonore piuttosto impegnative ma aspetto che la cosa sia definitiva per parlarne. Riguardo l’organizzazione la mia attività è perlopiù legata ad Acusmatiq, per cui credo che continuerò così fintanto che si riesce a fare il festival (e si riesce a  divertirsi nel farlo). A partire dall’edizione 8.0 di quest’anno proviamo a  cambiarne un po’ la formula sempre mantenendo aperta la possibilità di una costruzione “creativa” di un palinsesto festivaliero, alla stregua di un collage sonoro vivente.

Ti ringrazio per questa stimolante chiacchierata e per l’ospitalità sulle colonne gloriose di Kathodik, il primo media partner in assoluto di Acusmatiq! A presto!

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