Graham Halliwell, Tomas Korber ‘The Large Glass’

 

(Cathnor
2007)

In quel Mare Magnum in continua
espansione che è il mercato delle piccole labels dedite alla
musica improvvisata/sperimentale, l’inglese Cathnor, il nome è
un esplicito omaggio al famoso e lodato “Duo For Doris” di
Keith Rowe e John Tilbury, rappresenta una delle ultime
arrivate, qui giunta alla terza uscita, dopo i due precedenti lavori
accreditati a
Hervé Boghossian
(discreto) e Will Guthrie (poco meno che ottimo). Anche
questa volta accompagnato da una lussuosa confezione digipack
oversized
, della serie che non sai dove infilarla tra le pile di
cd, ma che fa la sua bella figura, “The Large Glass”,
vede all’opera Tomas Korber (electronics, chitarra) e
Graham Halliwell (feedback sax, loops). Il primo in qualche
modo l’erede di quel modo d’intendere la musica in tempi recenti da
parte del veterano Keith Rowe, il secondo esponente di uno dei suoni
più peculiari della scena attuale, nonché autore di
alcuni lavori davvero splendidi, sia in veste solista (tipo “Recorded
Delivery”
) che con il trio +minus. Musica del sublime e
dell’inconscio, contemplativa ed austera, fragile, ma anche perentoria
per il modo risoluto con cui scava il vuoto attorno a sé.
Forniscono un utile appiglio ad introdurre il lavoro, i primi due
titoli delle tre tracce complessive: the
essence of things
e in mezzo, nel mezzo. Letti in successione descrivono perfettamente la musica dei due, che
accenna ma non afferma, lascia intravedere ma non svela, come il
ricordo di una sensazione persa per sempre, che si riesce solo a
sfiorare mentalmente. Notevole il lavoro di Korber in questo disco,
misuratissimo ed essenziale, nel tessere trame filiformi quasi
invisibili, attraverso le quali il feedback abbagliante e a tratti
stordente del sax può filtrare, e contro le quali infrangersi. A dispetto
dell’austerità e del minimalismo delle musiche proposte, siamo
ben lontani dalla stasi, di cose ne succedono lungo il cammino,
lento, lentissimo, ma mutevole: chiudi gli occhi, porgi il pensiero
altrove per qualche istante e sei già smarrito, non ricordi
più da dove eri partito. Esemplare in tal senso la bellissima
traccia iniziale, da sola occupa più della metà della
durata totale, che inizia come il suono di onde elettriche che vanno a morire
tra gli scogli, per poi prosciugarsi e mutare in scoria, mentre il feedback splende con intermittenza come un
sole morente. A tratti incombe un vago senso di minaccia, il suono
diventa una coltre scura e cupa, che non manca di procurare qualche
piccola ferita. Un ticchettio lontano, ma via, via sempre più
insistente, il fantasma di un beat sepolto in qualche abisso nero, a partire dal
15esimo minuto segnano il lento e drammatico sparire del brano; tra
luccichii, ultimi sobbalzi di feedback e uno scampanellio (che mi
ricorda qualcosa di Steve Roden) intrappolato tra glitches
impalpabili. Meno cinematografico e più raziocinante il
secondo brano, che nella parte iniziale porta echi di Alvin Lucier
, per il modo quasi scientifico in cui le sinusoidi si espandono, si clonano e
entrano in conflitto con se stesse. Furtiva e subdola, la tattica con
cui Korber tramando lontano da occhi indiscreti corrompe la purezza
del feedback e traghetta il brano altrove, verso approdi tremolanti e scalfiti dalla distorsione. Mi fermo qui, anche se ci
sarebbe ancora da dire della traccia finale coarse ashes: una visione di basse
frequenze, suoni che si accendono come fiammelle votive, e un surreale
richiamo di gong e cori che in qualche strano modo trasmettono la
sensazione di una liturgia sacra. Proprio un bel disco.

Voto: 8

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