Wayne Horvitz ‘Those Who Remain’

(National Sandwust Tracks 2018)

Wayne Horvitz ‘The Snowghost Sessions’
(Songlines Records 2018)

Dopo averlo apprezzato nel caso di diverse prove discografiche, ho avuto il piacere di ascoltare dal vivo Wayne Horvitz a Bologna alcuni fa, in una performance basata in parte su materiale registrato sul suo cd ‘The Royal Room Collective Music Ensemble’ del 2013 e fondata anche sull’uso della ‘conduction’, o più estesamente ‘conducted improvisation’, il metodo di direzione dell’ensemble attento all’improvvisazione, alla libertà, alla spontaneità, all’improvvisazione, messo a punto da Butch Morris, che Horvitz riconosce non a caso come suo ‘unico maestro’ (https://www.musicajazz.it/butch-morris-ricordato-da-horvitz/). Ho appreso dunque con piacere, alcune settimane fa, dell’uscita pressoché in contemporanea di due nuove prove discografiche di Horvitz (l’una il 5 ottobre, l’altra il 12 ottobre), peraltro molto diverse fra loro a testimonianza della poliedricità del personaggio in questione. I dischi in questione sono ‘The Snowghost Sessions’ e ‘Those Who Remain’, e la loro diversità è immediatamente esibita, prima ancora di avventurarsi nell’ascolto della musica, dalle formazioni a cui Horvitz ha affidato l’esecuzione dei propri brani e dal numero e dalla tipologia dei brani stessi: 14 brani di diversa durata nel caso di ‘The Snowghost Sessions’, per trio composto dallo stesso Horvitz (piano, live processing, Wurlitzer, Hammond B-3, TX-7, Mellotron), da Geoff Harper al contrabbasso e da Eric Eagle alla batteria, e invece 2 lunghe composizioni scandite in diversi movimenti nel caso di ‘Those Who Remain’, per un ensemble composto dallo stesso Horvitz al piano, da Bill Frisell alla chitarra, dalla Northwest Sinfonia nel caso di una composizione (che è per l’appunto orchestrale) e dall’Odeonquartet nel caso dell’altra composizione (che è appunto per quartetto d’archi con aggiunta di ‘improvising soloists’). Pur nella loro diversità, che potrebbe spingere a parlare di eclettismo o eccentricità, i due dischi esibiscono una sorta di comunità di intenti, di ispirazione e in qualche modo di ‘sound’, o meglio di ‘scrittura’, che li rende ben riconoscibili e associabili fra loro. A ciò, a mio avviso, non corrisponde però un’eguale qualità fra le due prove discografiche, nel senso che considero decisamente più riuscito ‘The Snowghost Sessions’ rispetto a ‘Those Who Remain’, che pur essendo un lavoro indubbiamente interessante tradisce in vari punti un’ambizione a mio giudizio eccessiva senza essere capace fino in fondo, sul piano del risultato finale, di mantenersi al livello dell’ambizione di partenza. L’ambizione, cioè, di proporsi come compositore ‘colto’ o ‘serio’ in grado di produrre ‘a significant body of work that is classical in nature’, come recitano le stesse ‘liner notes’ di ‘Those Who Remain’. Non è la prima volta che ciò accade con musicisti di formazione jazz che si confrontano con la prova dell’orchestra o del quartetto d’archi, e probabilmente non sarà l’ultima. E ciò, naturalmente, non va inteso come un giudizio critico a priori sul tentativo di oltrepassare i confini della propria formazione jazz originaria (confini che, si badi bene, non sono affatto intesi da chi scrive come limiti) e di proporre sconfinamenti di questo tipo, giacché la sperimentazione con ciò che è diverso è la premessa per ogni avventura musicale e per ogni novità, sebbene a volta la premessa non coincida in questo senso con la promessa mantenuta. A decidere dunque non è a priori l’intenzione ma è a posteriori il risultato, e in questo caso il risultato sembra sì interessante ma, per chi conosca almeno un po’ la storia della musica europea e americana ‘colta’ del Novecento, meno originale di quanto non ci si possa attendere da un autore come Horvitz, i momenti migliori essendo proprio quelli in cui interviene la chitarra di Frisell improvvisando, scompaginando il piano sonoro e creando un po’ di proficuo disordine in un ordine musicale altrimenti a rischio del ‘già sentito’. Più riuscito e intrigante, come si diceva, appare invece ‘The Snowghost Sessions’, soprattutto per alcuni dei suoi brani (fra i quali mi limito a citare No Blood Relation #1 e #2, o Apart from You #1 e #2), in cui Horvitz, per così dire, sembra pienamente a suo agio come autore e come esecutore, e in cui si respira una bella atmosfera di libertà e ‘interplay’ che trova conferma anche qui nelle ‘liner notes’, dove si legge a proposito dell’interazione fra i 3 musicisti nella registrazione del disco: ‘They had no set list of pieces to record and no agenda. As Horvitz writes: I’ve never felt so free of expectations in the recording studio in my life. The sessions were relaxed, creative, and without a specific goal. We didn’t set out to make a record, we just set out to enjoy the process’. Ecco, volendo sintetizzare in una frase la differenza fra i due dischi parlerei proprio di ‘expectations’ forse eccessive e quindi solo parzialmente mantenute nel caso di ‘Those Who Remain’, e di ‘expectations’ meno pretenziose e proprio per questo più riuscite nel caso di ‘The Snowghost Sessions’. Proponendo una libera analogia col celebre motto nietzschiano secondo cui ‘il buddismo non promette ma mantiene, il cristianesimo promette tutto e non mantiene nulla’, direi quindi che il disco di Horvitz per orchestra e quartetto d’archi promette troppo e mantiene solo in parte, mentre il disco in trio promette meno in partenza e mantiene molto di più all’ascolto.

Voto: 6

Stefano Marino

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