(Neuma Records 2021)
Il mio primo approccio con la musica di Pamela Z risale a circa una ventina di anni fa: 2003, per l’esattezza, quando fu tra i protagonisti di una indimenticabile edizione della Biennale di Musica di Venezia, in quell’occasione affidata alla illuminata – e per molti spiazzante – direzione artistica di Uri Caine. Fui da subito colpito da quel singolare ed elettrizzante miscuglio di arie operistiche, frammenti di discorsi, basi elettroniche, loops e quant’altro. Ora, dopo ben 17 anni dal suo ultimo lavoro in studio, l’artista americana (da molto tempo operativa a San Francisco) torna con un nuovo progetto discografico – appena il terzo – licenziato dalla Neuma Records, in cui declina, in dieci tracce inedite, la sua peculiare cifra stilistica di “cantrice” del quotidiano. Sì, perché è dall’esperienza ordinaria che Pamela Z trae spunto, accumulando materiale fonico che spazia dal rumore di una macchina da scrivere ai suoni e alle voci che si ascoltano in una sala d’attesa di un aeroporto, per poi trasformare questi “found objects” musicali attraverso svariate tecniche di manipolazione sonora, sfasamenti ritmici, interazioni live tramite voce e dispositivi digitali. L’ordinario si trasforma così in extra-ordinario, talvolta allontanandosene tanto da farne perdere gradualmente le tracce: forse testimoniando l’affiorare, in questo nuovo lavoro, di una peculiare vena riflessiva, capace di captare le più minute sfumature emotive nelle situazioni (apparentemente) più banali, e tradurle in percorsi musicali che, anche quando lambiscono i territori dell’astrazione, non perdono mai il contatto con l’esperienza vissuta, o immaginata, che accomuna musicista e ascoltatori.
Voto: 7,5