Reinhard Gagel Intervista

Reinhard Gagel è musicista, educatore e ricercatore sul tema dell’improvvisazione musicale.
Fondato nel maggio 2004, l’exploratorium berlin è dedicato esclusivamente al tema dell’improvvisazione musicale. Suo scopo è la promozione di una cultura attiva e plurale dell’improvvisazione, che sfrutti le potenzialità e le peculiarità di questa forma di musica in molte diverse direzioni.

Link intervista in lingua tedesca

Alessandro Bertinetto (AB): Reinhard, puoi presentarti brevemente ai lettori di Kathodik?

Reinhard Gagel (RG): Sono un pianista, ma suono anche la fisarmonica e il sintetizzatore Minimoog e ho suonato insieme a molti musicisti-improvvisatori nel corso degli anni. Non sono arrivato alla musica improvvisata dal jazz, ma piuttosto dalla musica classica e dall’esperienza della “Neue Musik”. Per questo ho sviluppato molti progetti tra l’improvvisazione e la composizione anche per la radio: li ho chiamati programmi-zapping. Tra questi c’è un progetto su La Follia e un progetto di improvvisazione su un trio di pianoforte di Shostakovich. Per me è molto importante costruire ponti e lavorare in modi stilisticamente diversi. Dal 2003 ho insegnato improvvisazione e didattica dell’improvvisazione presso la Hochschule für Musik und darstellende Kunst di Vienna per studenti del curriculum classico. Lì ho anche fatto il mio dottorato di ricerca sul tema “L’improvvisazione come arte sociale”. Da allora ho lavorato nella ricerca sull’improvvisazione e dal 2012 ho un posto presso l’exploratorium di Berlino come capo della sezione teoria e ricerca. In quest’ambito ho creato una biblioteca sull’improvvisazione e ho organizzato seminari di ricerca e conferenze-performance.

AB: Puoi raccontare brevemente la storia dell’exploratorium, spiegare il suo contesto culturale e il suo “concept” , ovvero spiegare quali motivazioni e idee sono state alla base della sua fondazione?

RG: L’exploratorium di Berlino è stato fondato nel 2004 da Matthias Schwabe come centro di eventi per la musica improvvisata nei Sarotti-Höfen di Berlino (a Kreuzberg). In particolare, l’obiettivo era quello di promuovere, eseguire e insegnare l’improvvisazione libera come creazione collettiva e come metodo di insegnamento creativo. Oltre a corsi e workshop, l’exploratorium organizza concerti con artisti internazionali dell’improvvisazione e invita a partecipare a performance pubbliche di improvvisazione. L’exploratorium è cresciuto negli anni, gli spazi sono raddoppiati e l’offerta si è fatta più diversificata. Nel 2012 sono stato assunto per aggiungere il tema della teoria e della ricerca sull’improvvisazione alle altre occupazioni che sono al centro dell’attività dell’exploratorium: concerti, educazione, performance pubbliche. Da allora, abbiamo prodotto diverse pubblicazioni e tenuto seminari su vari argomenti. In collaborazione con il circolo dell’improvvisazione di gruppo, pubblichiamo una volta all’anno la rivista “Improfil”. In Europa siamo gli unici a portare avanti insieme le quattro sezioni: 1) concerti, 2) educazione musicale, 3) performance pubbliche e 4) teoria, biblioteca e ricerca. Nel 2019, tuttavia, l’exploratorium dovrà cercare una nuova location e al momento il suo futuro a Berlino non è sicuro.

AB: Dunque sei impegnato nell’improvvisazione in diversi modi. Ma che cosa intendi per “improvvisazione”? Si tratta di una pratica di produzione artistica? O uno stile artistico? O forse un modo di vivere? Oppure …?

RG: “Improvvisazione” è un termine che, al contrario del verbo “improvvisare”, ha insita una certa chiusura autosufficiente, come se fosse un fatto stabile e fisso. Per l’analogo termine “composizione” si può desumere che questo fatto si riflette anche nelle opere; invece le cose non stanno così nel caso dell’improvvisazione: qui non si ha a che fare con opere, ma con processi di produzione musicale che derivano immediatamente e senza intererruzioni dall’agire dei musicisti che vi partecipano. Questo agire, una volta avviato, è un processo unico: avere a che fare con suoni che hanno carattere temporale e sono irreversibili. Inoltre, i suoni sono “suonati” da musicisti che agiscono senza istruzioni e soltanto in base alla necessità interiore (Kandinsky) della struttura che si sta dispiegando e alla loro stessa percezione e corporeità. La loro capacità di suonare e inventare si alimenta delle proprie fonti interiori, della percezione intensificata degli altri musicisti e della comunicazione con i suoni degli altri. L’improvvisazione è quindi una componente generale del fare musica ovvero è la processualità incorporata della musica come arte temporale del suono. In realtà, si può dire che l’improvvisazione incarni la natura fondamentale della musica allorché viene intesa come performance, come suono nello spazio e nel tempo, come arte tra musicisti e ascoltatori, e non soltanto come una partitura. Perché il suono, che è una componente essenziale della musica, può essere combinato in molti modi e nel contesto di molti musicisti che lo sviluppano in modo imprevedibile nel processo di produzione musicale, senza affidarsi a un modello. Così la differenza tra comporre, interpretare e improvvisare diventa solo graduale: posso eseguire una composizione che può svilupparsi in modo parzialmente imprevedibile nelle sue interpretazioni (non nella partitura), il che significa che devo sempre improvvisare un po’ per interpretare. L’improvvisazione è quindi il rapportarsi al suono come performance istituendo un senso e, nella prospettiva del gruppo, una creazione collettiva imprevedibile.

AB: Quali sono gli aspetti dell’improvvisazione che consideri particolarmente interessanti per la ricerca? In altre parole, che cosa trovi di così interessante nella ricerca sull’improvvisazione? Intendo dire: “exploratorium” deriva da “explorare”… L’improvvisazione insomma non è soltanto qualcosa da ricercare, ma anche una pratica di “esplorazione”?

RG: Personalmente, l’improvvisazione mi ha affascinato soprattutto perché nel mio lavoro artistico ho improvvisato con la musica, e non volevo semplicemente accontentarmi di provare una grande soddisfazione per la riuscita di questa pratica. È per questo che ho iniziato a fare ricerche oltre a incrementare la mia capacità di improvvisare e a sviluppare metodi per guidare un gruppo di improvvisatori . Volevo articolare un modello interno ed esterno per i processi che hanno luogo nell’improvvisazione, specialmente per il momento creativo, questo millisecondo che decide la progressione dal suono al suono. Ho quindi scritto una tesi di dottorato, in cui ho trattato l’improvvisare a partire dall’agire sociale degli esseri umani, trovando un modello di tipo extra-musicale nella teoria dell’emergenza che poi (parallelamente ad altri autori, come il sociologo americano Keith Sawyer) potessi applicare all’improvvisazione. Così ho potuto intendere il momento della decisione per questo o quel suono non psicologicamente (come intuizione) o esotericamente (come scintilla divina), ma come un processo di comunicazione, descrivibile anche scientificamente, tra agenti umani. Semplicemente, non mi bastava descrivere i momenti di bellezza dell’improvvisazione come un’estasi religiosa: volevo invece essere in grado di giustificarla, ovvero di sviluppare un modello che fosse basato su fondamenti scientifici, senza voler tuttavia negare il carattere imprevedibile e libero dell’arte. E così, in seguito, una volta conseguita una grande esperienza con l’improvvisazione, mi sono spesso chiesto perché. Ho lavorato a un progetto di ricerca sull’improvvisazione dei musicisti classici a Vienna, e poi sono andato all’exploratorium a Berlino per raccogliere ulteriori ricerche e portare avanti il progetto in un contesto più piccolo. In tal modo, ho sempre preso sul serio l’aspetto artistico: in altri termini ho cercato sempre di tenere insieme arte e scienza. Mi ha poi affascinato il fatto che in questi ultimi anni siano sorti soprattutto nei Paesi anglosassoni molti progetti di ricerca che confermano la mia opinione che valga la pena porre questioni e ricercare una spiegazione in maniera insieme artistica e scientifica. Pertanto, mi sono concentrato sul reciproco scambio tra ricercatori e musicisti e ho costruito una biblioteca presso l’exploratorium, per un verso, per acquisire letteratura sull’improvvisazione e, per l’altro, per creare un luogo di comunicazione. In questo contesto ho elaborato formati per il pensiero e la ricerca in comune, organizzando una volta all’anno un workshop e una volta al mese un laboratorio pubblico in cui si presentano relazioni, si pensa insieme e, naturalmente, si improvvisa.

AB. E che cosa caratterizza l’improvvisazione dal punto di vista estetico? Ovvero che cosa rende l’improvvisazione una pratica artistica molto speciale?

RG: Sto pensando di sviluppare una definizione specifica di improvvisazione in base all’agire estetico. Gli aspetti musicali giocano un ruolo solo in seconda battura. Nella mia pratica, cerco sempre di creare spazi in cui l’improvvisazione possa accadere come comunicazione estetica. Ciò significa, prima di tutto, che ognuno si sente libero e sicuro di cercare quanto gli è proprio, senza dover soddisfare idee e valutazioni estranee. Questo crea una base importante per lavorare con i musicisti di formazione classica. Quindi l’agire in comune e l’inter-reagire avvengono solo sulla base delle proprietà del suono che risuona immediatamente. Insomma, i musicisti con ogni nota si mettono su un piano di scambio non verbale. Tutti i suoni avvengono in un contatto reale tra musicisti che deve essere stabile, ma mantengono anche un piano sonoro di mediazione, in cui si crea una tensione che, riprendendo metaforicamente un concetto di Rancière, chiamo “regime estetico”. Immagino perciò le persone che agiscono – cioè i musicisti di un ensemble – come personae in gioco, che agiscono soltanto dentro e con il suono. La comunicazione e l’interazione avvengono solo attraverso le possibilità sonore e la percezione solo attraverso i sensi corporei. Inoltre, le emozioni dei musicisti diventano riconoscibili attraverso il suono, in modo che la persona viene a significare l’intero essere umano e non soltanto il musicista. Perciò l’improvvisazione – essendo, come tu hai scritto, ontologicamente autentica – genera una densa coesione sonora ed emotiva tra i musicisti, che si manifesta sorprendentemente anche nello spazio: come per esempio osserva il batterista berlinese David Moss che descrive il suono come un ambiente a volta che avvolge i performers. Esteticamente, questo non dice nulla sulla qualità e sulla natura del risultato sonoro. Qui non formulo cioè un’estetica normativa dell’improvvisazione, ma piuttosto un’estetica dell’improvvisare sulla base della comunicazione estetica.

AB: Potresti spiegare quest’ultima distinzione, che ritengo molto interessante, tra un’“estetica normativa dell’improvvisazione” e un’“estetica dell’improvvisare basata sulla comunicazione estetica”?

RG: In realtà intendo con il termine improvvisare proprio il fatto che ci sia sempre una performance quando s’improvvisa. Così vengono messe a fuoco certe qualità che non hanno niente a che fare con la musica come opera o manufatto finito, ovvero con il suo stesso carattere di manufatto, ma con il suo carattere performativo: per esempio, l’esperienza della presenza. Il concetto di Moss di “ambiente sonoro a volta” dimostra che i musicisti possono aprire tali spazi solo con la loro presenza corporea. “Corporeo” qui significa uno specifico atteggiamento corporeo, che si mostra in tensione, concentrazione, movimenti tesi, e in una tensione – anche visibile – degli organi di senso, ad esempio quando chiudo gli occhi mentre improvviso. Io stesso nella mia dissertazione ho parlato soprattutto dell’ascolto che si riferisce a questa presenza, o si nutre di essa. Ho parlato di uno spazio d’ascolto, in cui gli improvvisatori agiscono, in cui il mero ascoltare diventa attento origliare. Origliare significa qui includere la temporalità dell’ascolto: ascolto un suono fino alla fine, ascolto un suono dal punto zero sino alla prima oscillazione in pppp (pianissimo). E, come ho letto poco tempo fa, è psicologicamente molto interessante che da questa presenza si dischiudano per la propria esperienza aspetti nuovi e sorprendenti, per così dire idee, precedentemente ignote allo stesso performer, che emergono dallo sfondo. Pertanto, gran parte del mio lavoro artistico con gruppi musicali è dedicato proprio a questo aspetto: creo l’esperienza della presenza e ho anche provato ad approfondirla, facendola diventare uno strumento dei musicisti.

AB: Nelle tue improvvisazioni raramente si producono melodie tonali. Perché? Pensi che per essere veramente in grado di improvvisare occorra suonare in modo atonale?

RG: Francamente, non lo credo: provengo dalla musica classica e l’esperienza della musica occidentale e delle sue composizioni e opere mi ha certamente influenzato a volte anche più di quanto mi piaccia. Ad esempio, nel suonare con altri ho usato spesso intenzionalmente accordi e scale tonali, anche se altri non hanno seguito l’esempio. Ma non sono un improvvisatore di stile classico: ho visto con grande ammirazione come nella Schola Cantorum Baseliensis gli studenti e i docenti improvvisano fughe, ma non è questa la mia intenzione. Piuttosto mi metto a fare zapping tra gli stili – tra l’altro, a seconda della situazione: un altro concetto che cerca di catturare qualcosa che ha a che fare con la performatività e la presenza: il che significa affrontare consapevolmente anche contraddizioni e incongruenze delle linee musicali, ovvero usare un livello come filtro per l’altro o come parte di un processo in sé autenticamente ermetico. Anche i miei studenti a Vienna mi tormentano, perché non faccio improvvisazioni tonali con loro. Naturalmente lo faccio, perché mi baso sul loro bagaglio di esperienze, ma non insegno loro esclusivamente quali schemi di scala possono usare. Perché voglio evitare un fraintendimento: l’improvvisazione non riguarda un materiale specifico che si può improvvisare. Appena introduco uno schema di accordi, si tratta di uno schema, si tratta di ciò che si adatta allo schema e, nel peggiore dei casi, di ciò che è sbagliato. Non lo escludo, ma non comincio con lo schema. Voglio invitare a improvvisare con tutto, non con un certo stile. L’uso del suono, del rumore, delle sfumature dei parametri secondari (dinamica, colore, articolazione) consente un’enorme presenza che non è distratta dal fatto che la nota sia ora adeguata alla scala (questa sarebbe una retrospettiva, dunque un andare fuori dal presente).

AB: Hai però pure suonato con il trombettista italiano Mirio Cosottini (e prodotto un ottimo Cd (vedi link) con lui), che peraltro suona anche in modo tonale. Cosa ne pensi dell’idea che l’improvvisazione enfatizzi la temporalità non lineare e invariabile della musica? Forse questo è un modo per esprimere il fatto che l’improvvisazione accade sempre qui e ora e, come hai già ben detto, in questo senso è “autentica”, il che precisamente è paradigmatico per la musica come arte performativa?

RG: Mirio e io siamo d’accordo su molte cose, musicalmente e teoricamente. Ci siamo conosciuti anni fa a Vienna, quando era agli inizi della sua teoria, e subito fu chiaro che siamo su una stessa linea: egli chiama invariante quello che io chiamo focalizzazione dei parametri. Mirio ha concentrato il suo lavoro sullo sviluppo delle invarianti e io sul gioco con le focalizzazioni. La sua teoria è diventata molto sofisticata e ha persino scritto un intero libro di testo (vedi link) che trovo interessante anche perché presenta le invarianti mediante la raffigurazione, ovvero mediante un’immagine strutturale disegnata, e poi fa nuovamente improvvisare i suoi musicisti a partire da quest’ultima. Infatti, come Mirio, anch’io sono pure un artista visivo, e qui abbiamo un altro campo in cui ci troviamo d’accordo. Il suo approccio mi sembra anche andare nella direzione di trovare una via per l’improvvisazione attraverso la presenza. Infatti, possiamo essere presenti unicamente quando mettiamo a fuoco qualcosa, quando ci concentriamo su qualcosa, e un’altra area di ricerca sarebbe esaminare i nostri metodi sia in rapporto alla ragione per cui è possibile attingere a risorse che altrimenti rimarrebbero nascoste e che, al di fuori di questo unico momento, non si rivelerebbero mai, sia in riferimento alla questione di che cosa davvero sia il nuovo che si manifesta: è forse più del nostro essere autentico, è forse anche una fonte che possiamo imparare sistematicamente ad usare mediante l’improvvisare?

A.B.: Caro Reinhard, è bello finire questa intervista con una domanda così profonda. Darà da pensare ai lettori di Kathodik. Grazie!

R.G.: Sono io a ringraziarti Alessandro!

Link:Exploratorium Berlin

Link:Reinhard Gagel & Mirio Cosottini – Pieces Without Memory (IRC, 2014)

Link: M. Cosottini, METODOLOGIA DELL’IMPROVVISAZIONE MUSICALE. Tra Linearità e Nonlinearità, ETS 2017