Emanuele Parrini ‘The Blessed Prince’


(Long Song Records 2016)

Che Emanuele Parrini sia diventato un punto fermo nella rete del new-jazz nostrano e non, ce lo dimostra il suo curriculum, già piuttosto voluminoso in fatto di incontri ‘piccanti’: spuntano collaborazioni col Dinamitri Jazz Folklore, l’Italian Instabile Orchestra , e il Rene Cene Resnik Quartet (da cui nacque l’irruento “From the Sky”), il sodalizio con Tiziano Tononi e William Parker in “Vertical Invaders”, e ancora Anthony Braxton, Ernico Rava, …
Potremmo continuare annoverando altre stelle con cui il violinista ha stretto contatti di stampo creativo per convalidare l’alta caratura di brillante e arguto conoscitore del violino qual’è, ma ci è bastato risentire il recente “Viaggio al Centro del Violino”, seguito da questo “The Blessed Prince”, che si è materializzata la conferma di avere di fronte un compositore il cui pregio è miscelare i dogmi dell’improvvisazione jazzistica con un taglio tonale creativo, peculiare, in cui la scrittura è continuamente seghettata da attimi di caotica esuberanza collettiva dove idealmente Ornette Coleman, Tim Berne, l’estetica melting-pot di John Zorn, e per certi versi anche l’anarchia di Albert Ayler, sembrano andare per un attimo a braccetto, facendosi poi coprire da inattese immersioni in ambienti più accorti, inquieti, tinti di jazz caliginoso e notturno, di pura ispirazione downtown. Alla bisogna Parrini è alle prese con la forma-quartetto, accompagnano da Dimitri G. Espinoza al sax alto, da un veterano come Giovanni Maier al contrabbasso e Andrea Melani alla batteria, dividendosi il compito di scrivere le sette tracce del lavoro con Maier, il quale ne firma tre: la doppia anima di Disk Dosk, concitata, sguinzagliante e allo stesso tempo placida, i sottili micro-scambi improv di Transizioni Morbide e San Frediano. La title track, segmentata in tre movimenti, è un gioco beffardo dove gli strumenti s’inseguono l’uno con l’altro, e su cui spicca spesso incontrastato il tocco arcigno e funambolico del nostro al violino, intento a far scorazzare note in massima libertà, metalliche come ferro arrugginito, strozzate, che vanno a cozzare sui giochi d’archetto del basso, densi di una impalpabile oscurità. E’ un crogiolo di agitazione programmata e improvvisa stasi meditativa, solitaria, che dopo poco si (ri)assesta su strade che odorano d’inappuntabile jazz.
Consiglio vivamente l’ascolto di “The Blessed Prince” in coppia con l’ultima fatica di Sarah Bernstein per Leo Records, “Still/Free”, anche lei violinista come Parrini, e anche lei alle prese con un quartetto nell’alchimizzare una personale visione dell’avant-jazz contemporaneo.

Voto: 7

Sergio Eletto

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