Clive Bell, Bechir Saade ‘an account of my hut’

(Another Timbre 2008)

Ispirato dall’omonimo racconto in prosa dell’autore giapponese Kamo No Chomei (1153-1216), questo lavoro raccoglie il dialogare meditativo di due particolari membri della famiglia degli strumenti a fiato, il ney e lo shakuhachi, due tipologie di flauto appartenenti l’uno alla tradizione araba, l’altra a quella giapponese, suonati rispettivamente da Bechir Saade e da Clive Bell. Sicuramente il Libano non è esattamente al centro della scena impro, tuttavia esiste una piccola ed apprezzata realtà locale ruotante perlopiù attorno all’etichetta Al Maslakh e a musicsti quali Sharif Sehnaoui, Mazen Kerbaj e lo stesso Saade. Una realtà che immagino difficile, ma forse per questo anche molto creativa. Clive Bell è invece inglese, e sicuramente il suo nome sarà capitato se non sotto le orecchie, sotto gli occhi di molti, essendo uno dei collaboratori della prestigiosa rivista The Wire. Un disco particolare questo, inevitabile dato l’utilizzo di due strumenti così distanti dalla tradizione occidentale, che emana un fascino misterioso e predispone ad un ascolto quasi contemplativo. Il procedere è quanto mai sereno e calmo, ma assolutamente non in senso riduzionista. Purissimo fiato che intaglia nell’aria “melodie” che sanno di mondi e tradizioni lontane, anche se proposte in modo non folkoristico, grazie al modo sapiente con cui attingono e fanno tesoro delle esperienze dell’improvvisazione più o meno radicale degli ultimi anni e all’innegabile maestria dei due nello sviscerarne i più intimi segreti timbrici. Un suono che ammalia, che si prende il suo tempo, che incurante della stupida frenesia di questo strano mondo che ci siamo costruiti, ricerca ed esalta la pura, fragile, fragilissima bellezza. Lunghi fraseggi che con estrema naturalezza si sfiorano, scivolano l’uno sull’altro, si uniscono e si separano, ogni tanto sbuffano e si arruffano per poi ricomporsi. Già dai primi istanti dell’iniziale kindling si capisce il tipo di viaggio (interiore) che si andrà a percorrere. Un dialogo fatto di piccoli e legnosi suoni percussivi, abbozzi di malinconiche nenie come trovate tra le foglie e assieme a queste trasportate dal vento, drones gentili e lunghi respiri circolari. Domina una certa uniformità di fondo, per cui sicuramente si tratta di un qualcosa che si odia o si ama tout court, ma nel secondo caso risulta difficile distaccarsi da questa musica che continua a vagare nella testa anche dopo l’ascolto. Una delle espressioni più profondamente umane dell’improvvisazione recente.

Voto: 8

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