Intervista con Alessandro Bertinetto e Marcello Ruta, curatori del volume ‘The Routledge Handbook of Philosophy and Improvvisation in the Arts’

Alessandro Bertinetto è una fine “penna digitale” di Kathodik da parecchio tempo e professore associato di Filosofia Teoretica all’Università di Torino, Marcello Ruta è un docente di Filosofia all’Università delle Arti di Zurigo. Ho potuto parlare del libro da loro curato, ‘The Routledge Handbook of Philosophy and Improvvisation in the Arts’ con una recensione (QUI) e subito dopo ho pensato di scambiarci le mie consuete quattro chiacchiere digitali. Ne è venuta fuori una bella discussione sulla Filosofia, sull’editoria e sulle potenzialità della condivisione di conoscenza.

Innanzitutto presentatevi ai lettori di Kathodik
MR: Ho una formazione musicale e filosofica. Ho studiato Pianoforte a Milano, Alla Civica Scuola di Musica, e mi sono diplomato a Bologna nel 1988, per poi terminare un Corso di Perfezionamento alla Associazione Musicisti Giuliani sotto la guida di Giuliana Gulli. Nel 1994 ho iniziato i miei studi filosofici alla Statale di Milano, dove mi sono laureato nel 1998, per poi continuare a Strasburgo, dove ho conseguito il Master nel 2005 e il Dottorato (Tesi su Schopenhauer e Schelling) nel 2010. A Berna ho conseguito l’abilitazione nel 2017, all’interno di un progetto finanziato dalla Swiss National Science Foundation e con un lavoro sull’ontologia della musica. Questa formazione “apolide” mi ha di fatto costretto a imparare diverse lingue (tedesco, francese, inglese e spagnolo). Per molti anni ho lavorato in altri campi, in quanto la filosofia e la musica non mi permettevano di sopravvivere. Al momento lavoro come Libero Docente alla Zürcher Hochschule der Künste, dove ho un contratto fino a fine 2022, poi vedremo.
AB: I lettori di Kathodik mi conoscono come critico musicale. Da qualche anno collaboro, infatti, con la rivista dedicandomi in particolare a musica sperimentale, d’improvvisazione e jazz, ma non solo. Ma questo è solo un hobby, che peraltro mi piace molto e mi consente di avere la presa sulla scena musicale contemporanea. E per avermi invitato a collaborare, ti ringrazio Marco. Il mio impegno principale però è il lavoro come professore universitario. Mi sono a lungo occupato di filosofia classica tedesca ed ermeneutica. Sono stato ricercatore di estetica all’università di Udine e dopo una parentesi come professore associato di filosofia teoretica a Torino, tra qualche giorno prenderò ufficialmente servizio come professore ordinario di estetica, nel Dipartimento di filosofia e scienze dell’educazione della stessa università di Torino. Insegno estetica contemporanea, philosophy of music, estetica delle arti performative e mi occupo di filosofia dell’arte e della musica e, in particolare, di estetica dell’improvvisazione (sul cui tema, oltre all’Handbook, ho pubblicato un paio di libri – l’ultimo sarà presto disponibile anche in inglese – e diversi articoli). Ora mi interessa molto anche il tema delle abitudini.

Veniamo all’argomento principale. Come è nata l’idea del libro?
MR: il progetto ha origini come dire plurali. Da un lato, c’era una base costituita da una conferenza sull’improvvisazione organizzata da me all’interno del progetto di cui sopra, a cui aveva preso parte anche Alessandro, e che costituisce l’ossatura della terza sezione del libro. Dall’altro ci sono diverse altre iniziative, di cui vi parlerà Alessandro, e che sono rientrate in altre sezioni. Tutto questo ha comunque costituito meno del 50% del totale del volume. Il resto sono autori che abbiamo invitato per questo progetto.
AB: Sì, siamo partiti dalla conferenza su autenticità e improvvisazione nella musica organizzata a Berna da Marcello se non sbaglio nel 2017. Poi Marcello ha avuto l’idea di non fare i soliti proceedings, ma di proporre a Routledge un ‘Handbook di filosofia dell’improvvisazione musicale’. E ha avuto la bontà di coinvolgermi. Il progetto ha preso subito una forte piega internazionale e interdisciplinare, coinvolgendo alcuni filosofi della musica e musicologi che avevano partecipato al convegno, ma anche colleghi conosciuti in altri progetti, in Germania, Francia e altrove. E poi, su impulso dell’editore, abbiamo scelto di estendere l’indagine anche ad arti diverse dalla musica.

Come avete scelto gli studiosi?

MR: Come detto, una base veniva dalla iniziative di cui sopra. Per il resto, abbiamo cercato di invitare tutti i “migliori” nel campo dell’improvvisazione, e pensiamo di esserci riusciti, con pochissime eccezioni (alcuni specialisti non hanno potuto prendere parte al progetto)
AB: Sì, abbiamo coinvolto il fior fiore degli specialisti sul tema, anche se qualcuno non ha potuto partecipare. Certamente il Covid, intervenuto quando eravamo nella fase realizzativa decisiva, non ha aiutato. Ma in generale la risposta è stata molto buona. Alcuni autori che non avevano aderito inizialmente, quando si trattava di un progetto solo musicale, avrebbero poi magari aderito quando siamo passati al progetto più esteso, quello alla fine realizzato – è il caso di Richard Shusterman (filosofo americano, neopragmatista che si occupa in particolare di “somaaesthetics”), che mi ha confessato che se avesse saputo che sarebbe stato un progetto così ampio, sarebbe stato sicuramente della partita. Ma quando siamo passati alla versione “big” dell’Handbook, non lo abbiamo ricontattato, ritenendo che sarebbe stato comunque indisponibile. Comunque, la sua assenza è ampiamente bilanciata dai presenti (e la somaaethetics è presente nel capitolo sul rock di Stefano Marino).

Come è stato pubblicare con la Routledge Editions

AB: Allora, alla fine è stata sicuramente una grande soddisfazione. Il progetto ci ha dato un grande entusiasmo. Avevamo proposto un lavoro incentrato su filosofia e improvvisazione musicale; poi, dopo le prime valutazioni, per altro molto positive, l’editore – che aveva comunque accettato il lavoro – ci ha proposto di estendere la cosa alle altre arti. Ci siamo allora rimessi al lavoro, cercando nuovi contatti internazionali, ristrutturando l’articolazione del libro, e buttandoci con gioia in un lavoro diverso, che ci ha portato a un risultato forse insperato, non senza far uso di un po’ di – felice – improvvisazione. Per esempio, non trovando nessuno al momento in grado di scrivere il capitolo sulla fotografia, mi sono improvvisato filosofo della fotografia, esplorando un territorio inedito e scoprendo tesori filosofici. Analogamente, il capitolo sulla pittura era stato affidato a un esperto del tema, che però non ha consegnato in tempo. Messi alle strette dall’editore (giustamente) a livello di tempi di consegna, e non potendoci permettere ulteriori ritardi, avevamo approntato appositamente un piano B, scrivendo noi due insieme un articolo a quattro mani sul tema, che alla fine abbiamo utilizzato per il volume.
Meno soddisfacente, per me, è stata la comunicazione nel periodo duro del Covid – a un certo momento, anzi per diversi mesi, i nostri contatti in casa editrice sono letteralmente scomparsi, e abbiamo dovuto prendere autonomamente decisioni importanti e decisive di carattere editoriale. E poi è stato importante scoprire come funziona una multinazionale dell’editoria: la “testa” negli USA; l’organizzazione della produzione in UK; la produzione materiale (bozze, correzioni, ecc.) in India, ovvero: sfruttamento di manodopera a basso costo. Questa cosa non mi è piaciuta particolarmente. Ma questo è il modo in cui funziona l’editoria internazionale oggi. Il che dovrebbe far riflettere molto sulla tanto decantata internazionalizzazione (che spesso viene intesa come garanzia unica e assoluta di qualità, cosa che mi sembra francamente una sciocchezza).

MR: come ben spiegato da Alessandro, il progetto è stato davvero un work in progress. Questo vale sempre, in senso lato, ma in questo caso davvero le cose hanno preso una piega alquanto diversa rispetto al progetto iniziale. E, bisogna dire, la proposta di Routledge, che all’inizio ci era sembrata fin troppo ambiziosa, si è dimostrata alla fine vincente. Credo che in parte siamo stati bravi, ma anche fortunati, a trovare autori che si sono messi a disposizione del progetto e che hanno proposto capitoli che ben si inserivano nel contesto generale. La comunicazione con Routledge ha avuto alti e bassi, ma alla fine le cose sono andate nella giusta direzione, e il prodotto finale si è mostrato, ci sembra, davvero all’altezza.
Non posso che concordare con quanto detto da Alessandro sugli effetti della globalizzazione: posso solo aggiungere che situazioni simili non sono per nulla limitate all’editoria. Oggi se chiami il Customer Service di qualsiasi multinazionale europea, normalmente ti risponde personale localizzato in Est Europa o anche al di fuori dell’Europa, per motivi prettamente economici. D’altra parte, preferisco soluzioni del genere, che, se da un lato sacrificano posti di lavoro in Paesi cosiddetti “ricchi”, di fatto innalzano le condizioni di lavoro in altri Paesi, piuttosto che importare in modo totalmente de-regolarizzato manodopera disposta a lavorare, in Italia, a qualsiasi prezzo, e distruggere in quel modo il potere contrattuale dei lavoratori, conquistato con decenni di lotte sindacali. Ma qui entriamo in un campo delicato, e mi fermo subito, forse anche un filo troppo tardi..

Veniamo al testo. Leggendo il libro, in particolare l’introduzione, ho subito pensato al volume come una sorta di ipertesto cartaceo, che necessitava di “sfoglio delle pagine” per permettere ai vari studiosi, di comparare i vari punti di vista, tra cui il proprio, per ottenere nuove prospettive e nuove domande a cui rispondere, per crearne delle nuove e così via. Condividete questa immagine?

MR: questo è in parte vero, e lo prendo come complimento, anche perché penso sia dovuto anche al lavoro di revisione che abbiamo fatto, a volte come certosini, io ed Alessandro. Spesso il feedback che abbiamo inviato agli autori riguardava proprio le possibili connessioni con altri articoli e o/autori dell’Handbook, sia a livello di temi trattati, che a livello di autori citati. L’idea era di creare una totalità, se non totalmente organica, comunque non costituita da parti slegate tra loro. E speriamo di esserci, per quanto possibile, riusciti.

AB: Concordo. L’immagine dell’ipertesto è interessante: coglie sicuramente un aspetto importante del lavoro. Anche grazie all’indice di nomi e concetti, cui abbiamo lavorato intensamente, il testo è certamente un po’ un intreccio ipertestuale di temi, nozioni, prospettive, e anche di domande che si spera sorgano e inducano a portare avanti il lavoro, in ambito filosofico ma non soltanto, su un tema affascinante, e importante, come l’improvvisazione.

A seguire, pensate che questo volume possa diventare un vero e proprio ipertesto digitale, che possa sfruttare le potenzialità della rete?

AB: Non lo so. Un “manualone” di questo tipo avrà un’edizione più leggera (in termini di prezzo), lo si trova già in ebook, ma non so se potrà essere sfruttato come dici tu. Magari ci saranno lavori che potranno derivare da questo. Anzi, magari ci dai un’idea per portare avanti in qualche direzione innovativa il lavoro fatto qui. Vedremo.

MR: In effetti, questo dipenderà da moltissimi fattori, non ultimi questioni puramente editoriali. In realtà spesso in rete girano copie (più o meno pirata) elettroniche di testi cartacei, e già il formato PDF permette di navigare nel testo con chiavi di lettura. Credo che succederà, prima o poi, anche col nostro Handbook.

Questa messe così articolata di studiosi e di articoli – scrivete nell’introduzione – che non porta a risposte risolutive, ma anzi si riscontra una certa come scrivete “dissonanza concettuale” tra i vari autori. E’ una scelta coraggiosa che avete intrapreso. Me la potreste esplicitare meglio?

AB: Beh, il punto era quello di mostrare al mondo (suona un po’ pomposo, ma è così) il diversificato dibattito contemporaneo in tema di filosofia ed estetica dell’improvvisazione in relazione alla musica e ad altre arti, performative e non. Esistono idee diverse, anche molto contrastanti; ma accostarle consente di far riflettere, far pensare. Ciò non significa non prendere posizione, restare nell’indifferenza. Per esempio, io ritengo che la diffusissima idea che l’estetica dell’improvvisazione sia un’estetica dell’imperfezione sia sbagliata. Ma è una prospettiva comunque significativa. Quindi, anche se dico, anzi: cerco di argomentare che è sbagliata, e che invece l’improvvisazione suggerisce un’estetica della riuscita paradigmatica per l’estetica e la filosofia dell’arte tout court, ciò non vuol dire che non sia importante. Peraltro, Andy Hamilton, che è l’esponente attualmente più importante del paradigma imperfezionista, proprio nel capitolo pubblicato nell’Handbook ha declinato la sua proposta in una direzione che la porta molto vicino a quanto sostengo io. Ne abbiamo recentemente discusso in un convegno in Germania, e mi ha invitato a un convegno sull’estetica dell’entertainment che organizzerà a Durham, UK, nel 2023. Insomma, in filosofia, anche quando si tratta di improvvisazione, è bello e importante discutere. Magari presentando nello stesso volume anche tradizioni filosofiche che spesso si danno battaglia senza esclusione di colpi all’interno dei dipartimenti universitari, come la filosofia analitica e le diverse proposte che proprio gli analitici hanno raccolto sotto l’etichetta, molto discutibile, di filosofia continentale – ermeneutica, fenomenologia, filosofia critica, filosofica trascendentale, marxismo, pragmatismo, vitalismo, ecc.

MR: come già anticipato da Alessandro, quella metafora della dissonanza in realtà indica (perlomeno) due aspetti. Uno è quello relativo alla pluralità di approcci nel campo specifico dell’estetica, ben illustrato da Alessandro. L’altro è quello relativo alla coesistenza, in questo Handbook, di filosofi sia “analitici” che “continentali”, su cui credo valga la pena spendere due parole. Questa categorizzazione, introdotta nel contesto italiano un quarto di secolo fa da Franca d’Agostini, viene spesso, oggi, definita come “superata”. In realtà, a mio modo di vedere, ipocritamente. Di fatto, aldilà delle imprecisioni che le generalizzazioni sempre comportano, i due modi di fare filosofia sono di fatto tuttora molto riconoscibili, in alcuni casi non come specie dello stesso genere, ma proprio come generi diversi. Questo a mio modo di vedere fa male alla filosofia, che in teoria dovrebbe essere, tra l’altro, la disciplina delle “sintesi”, o perlomeno capace di tirare le fila di discorsi diversi, e che invece, più di molte altre, si trova spaccata al suo interno. Ci sono evidentemente eccezioni, come la rinascita degli studi hegeliani negli Stati Uniti, in ambito pragmatista, dove filosofi di taglio analitico come Robert Brandom e John McDowell (tra gli altri) si sono mostrati capaci di confrontarsi con filosofi per decenni letteralmente rifiutati (e grottescamente disprezzati) dalla filosofia analitica, come Hegel o Gadamer. Ma sono comunque eccezioni. Noi qui avevamo un’occasione: poter presentare approcci differenti attraverso l’unità del tema. E questo abbiamo voluto fare, anche per mostrare, in concreto, come sia possibile fare coesistere modi diversi di fare pensiero, senza che uno debba delegittimare l’altro, come, nolens volens, spesso succede a livello accademico. Questo lavoro ci è costato, in termini di fine-tuning, proprio perché non si disponeva di un repertorio “scolastico”, fatto di argomenti e concetti definito a monte. Ma speriamo, di essere arrivati, a valle, ad un risultato più stimolante per il lettore, sia specialista che puro appassionato. Un terzo aspetto della dissonanza concettuale, che può forse venire menzionato, riguarda il fatto che in questo Handbook ci sono filosofi, studiosi di altre discipline umanistiche, ma anche artisti, che riflettono sulla propria prassi. Questo comporta evidentemente pluralità di approcci e soprattutto di vocabolario. Ma permette al testo di rivolgersi ad un pubblico eterogeneo.

Come pensate, se già ci state pensando, future possibilità di interazioni nella ricerca dopo questo volume? Se ve la sentite “improvvisate” la risposta.

MR: credo che il tema improvvisazione stia vivendo ormai da almeno un decennio un trend di crescita, che questo volume certamente contribuirà a rafforzare. L’opportunità è quella di allargare il tema dell’improvvisazione ad ambiti non strettamente legati all’arte, quali l’economia e la politica, in primis, ma anche altrove. Il rischio è quello di annacquare il concetto (come qualche decennio fa, durante gli anni d’oro dell’ermeneutica, era successo col termine “interpretazione”) e fare di qualsiasi attività più complessa di una reazione condizionata una improvvisazione. In questo senso penso che l’attività di diairesi, di articolazione e delimitazione concettuale, dovrà essere l’antidoto necessario per evitare questo rischio, senza perdere l’opportunità. Per quanto mi riguarda, mi interessa al momento da un lato delimitare il concetto di improvvisazione rispetto a quello di interpretazione, per quanto i legami tra i due siano evidenti; e dall’altro valutare, almeno per alcuni aspetti, la rilevanza dell’improvvisazione nella società contemporanea (parlando sempre di democrazie occidentali – precisazione questa importante, in un contesto storico dove, a quanto pare, dobbiamo tutti imparare in fretta a pensare in modo multipolare), anche in relazione ad altri concetti quali quelli di creatività e di (dis)orientamento, la cui rilevanza per il nostro presente, a diversi livelli, è stata recentemente più volte sottolineata.

AB: In parte ti ho già risposto. Il dibattito attorno a questo volume c’era quando lo stavamo costruendo e potrà ravvivarsi grazie alle iniziative che faremo noi e che faranno altri. Intanto, lo abbiamo già presentato, e lo discuteremo ancora in future presentazioni: per esempio a Torino al Circolo dei lettori il 23 giugno 2022 e a Berlino, all’Exploratorium il 20 ottobre 2022. Poi aspettiamo altri feedbacks, oltre alla tua puntuale recensione che hai recentemente pubblicato qui su Kathodik. Filosoficamente, sto poi cominciando ad addentrarmi nella ricerca su un tema apparentemente contrapposto a quello dell’improvvisazione, ma in realtà ad esso strettamente, anzi, vitalmente, connesso: la questione delle abitudini estetiche. Un convegno importante sull’argomento, che ha anche sollevato la domanda sul rapporto tra abitudini e improvvisazione, si è svolto a Torino, Rivoli e Avigliana (dove abito io) dal 13 al 16 giugno (qui c’è il programma: https://filosofia.campusnet.unito.it/do/avvisi.pl/Show?_id=biv8), ed è stato un successone. Inoltre, a breve uscirà l’edizione inglese (per Brill/Fink) del mio “Estetica del’improvvisazione”, in cui espongo le mie idee sull’argomento, anche dialogando con gli autori e le autrici presenti nell’Handbook – ovviamente, oltre a molti/e altri/e.

Link: Marcello Ruta Academia

Link: Alessandro Bertinetto Università Degli Studi di Torino