Ani DiFranco ‘Binary’

(Righteous Babe Records 2017)

Cantautrice prolifica come poche altre, avendo pubblicato quasi un disco ogni anno fin dal suo esordio nel 1990, nel 2017 Ani DiFranco ha realizzato ‘Binary’, suo 21° album in studio. Avendo seguito la produzione discografica di Ani in maniera pressoché costante dai tempi di ‘Little Plastic Castle’ (1998), non avendo perduto da allora neanche un suo album e avendo apprezzato i vari cambiamenti di stagione nel suo approccio alla musica (dal folk acustico per chitarra e voce al trio catturato nel live ‘Living in Clip’ del 1997, dal periodo caratterizzato da tendenze più soul e funky grazie anche all’apporto di Maceo Parker al sax al ritorno ad atmosfere più intimiste ma con arrangiamenti attenti e un accurato lavoro in studio di registrazione), e, soprattutto, avendo amato molto tutti i suoi ultimi lavori (‘Knuckle Down’, 2005; ‘Reprieve’, 2006; ‘Red Letter Year’, 2008; ‘Which Side Are You On?’, 2012; un po’ meno ‘Allergic to Water’, 2014), mi sono rapportato all’uscita di ‘Binary’ con notevoli aspettative. Confesso che al primo ascolto tali aspettative sono state parzialmente deluse: il disco dapprima mi è sembrato leggermente incoerente, come una sorta di mix non ben pianificato della Ani più folk e della Ani più funky; alcuni brani mi sono sembrati un po’ la fotocopia di canzoni apparse nei dischi precedenti, ma qui con un sound meno convincente e un intreccio musica/testi meno riuscito che in passato. Morale della favola: dopo averlo ascoltato 2 volte ho riposto il cd sullo scaffale e per qualche tempo l’ho dimenticato. Poi, per fortuna, un giorno mi è accaduto di riascoltarlo, ma stavolta (per puro caso!) non partendo dal 1° brano bensì dal 6°, Telepathic, e di rendermi così conto di quanto avessi sottovalutato ‘Binary’ a causa della (non proprio negativa, ma certamente non del tutto positiva) impressione suscitatami dai primi 5 brani del disco. Brani che, a mio parere, sono un po’ debolucci (eccetto Pacifist’s Lament, ballad molto intensa ancorché non particolarmente originale rispetto a composizioni passate di Ani) e che probabilmente avevano condizionato anche la mia ricezione della seconda parte del disco, secondo me invece più convincente e incisiva. A spiccare, a mio giudizio, sono in particolare l’8° e il 10° brano dell’album, rispettivamente intitolati Spider e Terrifying Sight, i quali, soprattutto per via di parti ritmiche molto incisive e dirette come poche altre nel vasto catalogo di Ani, e per via di inserti ficcanti al violino (in Spider) e all’organo (in Terrifying Sight), catturano subito l’attenzione dell’ascoltatore, penetrano con facilità nelle sue orecchie e nella sua mente, e dopo questa prima ricezione all’insegna dell’immediatezza si lasciano scoprire progressivamente, strato sonoro su strato sonoro, in una maniera più mediata e meditata. Ed a spiccare, infine, è l’11° e ultimo brano del disco, Deferred Gratification, ballad di estrema semplicità, sia dal punto di vista lirico-testuale sia dal punto di vista musicale (seppure arricchita da un bell’arrangiamento che comprende violino, tromba, trombone e clarinetto a creare un impasto sonoro di sicura efficacia), e al contempo di grande forza. Un brano che, ascolto dopo ascolto, ha decisamente conquistato chi scrive e che, senza una ragione precisa (adattando ai nostri scopi il lessico dell’estetica del Settecento diremmo: “Si chiama je ne sais quoi, baby!”), ad ogni ripetizione del verso ‘get it yourself’, con la voce di Ani sospesa in un’indefinibile condizione a metà tra la rassegnazione e la pervicace ostinazione, suscita commozione. Una transizione dalla rassegnazione alla tenacia e all’ostinazione che sembra trasparire anche dal testo, nel passaggio da quel ‘I got kids and so do my friends / it’ll never be our world again’ della prima strofa a quel ‘I vote in every election / hope someday these kids / are gonna help us win’ dell’ultima strofa. Nel primo anno della presidenza Trump, che, com’era prevedibile più o meno da qualsiasi essere umano dotato di un granello di senso comune e di un po’ di ragionevolezza pratica, sarebbe stato desolante, devastante e disperante, il ritorno sulle scene della più politicizzata cantautrice americana degli ultimi decenni fornisce almeno la (magra, indubbiamente…) consolazione dell’esistenza, ancora oggi, di una parte di cultura statunitense “resistente” di fronte al ritorno di una barbarie completa.

Voto: 6

Stefano Marino

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