Davide Ravera ‘Gospel’


(Hazy Music 2015)

La tradizione dei cantautori pauperistici e “fuori binario” in Italia ha avuto sempre una consistenza numerica abbastanza limitata, ma una presenza costante (a partire dai maestri Piero Ciampi – che in “Gospel” si sente fantasma in Io, lui, lei e l’altro − e Flavio Giurato). Il disfacimento dell’industria discografica di questi ultimi quindici anni ha vieppiù aumentato le loro file: nell’anarchia del “non-mercato”, gli anarchici veri sono più adatti e abituati alla carboneria. A Davide Ravera, emiliano vagabondo, non cale nulla dell’intonazione (cfr. Senza te) e degli arrangiamenti se ne frega il giusto, nonostante la produzione del Santo Niente Umberto Palazzo (prova un po’ di molto: pure il reggae in Cose calde); le sue canzoni d’amore sbalestrato hanno qualche scintilla della passione popolare di Umberto Tozzi e Ciro Sebastianelli (cfr. Amore chi, amore cosa), ma il pubblico e il periodo non sono più quelli. A lui, vascorossiano (Chi mi tocca muore) piacerebbe senz’altro di più esser paragonato a De André (cfr. Ridammi i miei trenta denari), ma Pierangelo Bertoli ha più senso (La messa non conta).
Una domanda: per chi canta, oltre che per se stesso? Per altro, non lo fa male (Canzone ruvida).

Voto: 6

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