(Touch and Go/Wide
2006)
Finalmente, tornano in pista gli Uzeda.
Non era affatto cosa scontata, più volte avevo pensato che l’affare
potesse considerarsi definitivamente chiuso, dati gli otto
anni trascorsi dal precedente “Different Section Wires” e
l’attività di Giovanna e Agostino come Bellini. In
realtà segnali di vita sono sempre giunti nella forma di
qualche sporadica apparizione live, tra cui recentemente quella con
gli Shellac del mentore di sempre Steve Albini (che
ovviamente non manca di presenziare anche in questo disco), ma
dubitavo che si sarebbero mai concretizzati in una nuova prova
discografica. Nonostante il notevole lasso di tempo trascorso è
inutile aspettarsi chissà quali cambiamenti epocali nella
musica dei quattro catanesi; cambiamenti che del resto sarebbero
assolutamente non graditi, perché andrebbero a scalfire un
suono che ormai ha raggiunto una sorta di classicità dalla
quale sarebbe triste separarsi. Come sempre la musica degli Uzeda
sembra mimare il carattere schizofrenico, ma a suo modo rassicurante,
dell’Etna: brontola, sbuffa, erutta improvvisamente con violenza,
cade in letargo, in un susseguirsi ciclico apparentemente
inarrestabile. Ascoltando “Stella” la sensazione è quella di
ritornare ad una casa dalla quale si è rimasti lontani per
molto tempo e scoprire che ogni cosa è ancora lì al suo
posto, perfettamente in ordine. Il tempo sicuramente è stato
molto clemente, e anche se la macchina Uzeda ha trascorso gran parte
degli ultimi anni parcheggiata in garage non c’è traccia di
ruggine nel motore, che ancora gira ed eroga potenza a pieno regime.
Tutto appare perfettamente in forma, dalla metronomica e poderosa
sezione ritmica di Davide e Raffaele passando per quel formidabile
uomo forgia-riff di Agostino e finire con quella tempesta di furia
impregnata di malinconia che è la voce di Giovanna. A
proposito di quest’ultima qualche piccolo cambiamento è però
osservabile, sia nella forma di un cantato leggermente più
intellegibile e meno astratto che nella forma di piccole inflessioni
melodiche (già osservate nell’ultimo Bellini), e se uno dei
paragoni più abusati in passato è stato quello con Kim
Gordon, qui in alcuni vocalizzi appare la
figura della P.J. Harvey dei tempi che furono. Così
come il precedente disco, anche questo ha una durata molto breve,
mezz’ora scarsa, ma del resto il parossismo dell’energia profusa e
quella sensazione di tensione costipata e prossima al punto di
rottura non renderebbero consigliabile percorrere distanze troppo
lunghe. Volendo segnalare qualche brano direi What I Meant When I
Called Your Name che con le sue ritmiche esplosive e parecchio
catchy sicuramente causerà sfaceli dal vivo,
l’atmosfera ossessiva e mandata in loop di This Heat (omaggio
al gruppo di Brixton o all’afa siciliana?) con la chitarra che incide
segni sulla pelle, e Steam Rain & Other Stuff che alterna
abbandoni verso l’alto a micidiali e meccanici giochi d’incastri
chitarra/sezione ritmica. Recentemente qualcuno ha deciso che Plutone
non merita più la qualifica di pianeta, ma una piccola Stella
è tornata a splendere nel firmamento della musica indie.
Voto: 7
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