Emily Hay ‘Like Minds’

(PfMENTUM 2005)

Simpatica sorpresa questo agile dischetto della bionda Emily Hay, divertito ed
intelligente, concettuale ma mai pedante; scanzonato ma non gratuito. In parole
povere notevolmente affascinante. Concepito come sorta di riepilogo del
cammino intrapreso fin qui dalla biondina della Virginia “Like Minds”
regala attimi di piacere assoluto evitando agilmente le trappole del già
sentito.
Emily Hay concepisce questo suo personale bignami acustico attingendo a
piene mani dal suo notevole bagaglio performativo che la ha vista collaborare
con gente come i Motor Totemist Guild, il Jeff Kaiser Okodektet,
il Rich West Ensemble e molti altri ancora. La dolce ragazza si barcamena
agilmente fra flauto e voce senza nessun problema delineando una traiettoria ideale
che ce la fa immaginare come possibile compagna di stanza di Zeena Parkins
e del compianto Tom Cora.
Piace non poco questa sua capacità di far interagire passaggi più
accademici con inserti improvvisativi etnicamente aromatizzati, piace assai il
suo timbro vocale capace di passare da stacchi quasi operistici a più esili
e scanzonate cadenze popolari; piace piace piace infine questa sua caparbia volontà
di uscir fuori dagli schemi rigidi di certa musica che si prende troppo sul serio
non disdegnando di sporcarsi le mani con la manipolazione elettronica.
Di certo nella creazione del suo sentire eterodosso un peso notevole lo
deve avere anche la sua attività di supervisione e produzione di colonne
sonore per la Tri Star Pictures; la scioltezza mentale dimostrata nel maneggiare
materiali diversi.
Si parte con Call To Unarm dove il consueto panorama impro si innerva
di una leggera vena medio orientale che permette di apprezzare questo interlocutorio
brano di apertura. Le cose migliorano e non di poco con la successiva Liturgy
Of Sound
che a dispetto del titolo altisonante tratteggia un oscuro panorama
notturno dove field recordings e acustica convivono in un bozzetto inquieto che
avrebbe fatto la gioia anche dei Tuxedomoon. Ma le sorprese devono ancora
venire, ed allora si materializza la splendida A Year And Two Weeks, una
ballata malinconicissima a base di synth e chitarra grattata con voce da streghetta
sdentata che duella con una principessa.Strabiliante nella sua leggerezza.
La vertigine di We Are (solo percussioni, voce e flauto) parla lingua sciamanica
che molto ricorda altre remote vertigini attribuibili alla Bittova o ad
Amy Denio, ascendente senza ombra di dubbio. Wha’ ‘Bout poi ci piega
definitivamente le gambe unendo concezioni estremamente distanti fra di loro che
semplificando si potrebbero rimandare ad una possibile mutazione genetica fra
After Dinner e la scuola di casa Indipendent Project; notturna ed
intensissima. Reale bomba sonica emotiva.
Nella successiva Spar lo schema si ripete con sempre questa elettronica
deviata che si adagia sullo sfondo ed è proprio questa ricerca a metà
strada fra l’alto ed il basso che ci permette di tirare una boccata
di rinfrescante aria.
Ottimo punto di partenza per un’artista che non dimostra nessuna voglia di rimanere
intrappolata in schemi troppo rigidi; si attendono sviluppi.

Voto: 8

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