Il report sul festival Jazz di Gueph, Ontario, Canada, dal nostro inviato Alessandro Bertinetto

Riprendendo il filosofo H.-G. Gadamer (che a sua volta riprende Heidegger) posso dire che il Festival internazionale di Jazz di Guelph (Ontario, Canada) che si è svolto dal 14 al 18 settembre del 2016 è stata un’esperienza in senso proprio, un’esperienza che modifica chi la fa (in questo caso, almeno ha modificato me). Per varie ragioni. L’alta qualità dei musicisti e della musica è senz’altro una di queste, ma non è l’unica. Un’altra ragione, importante è infatti costituita dal ricchissimo e vario assortimento dei musicisti. Ma a colpirmi sono stati soprattutto l’impegno e la dedizione – da parte di tutti: organizzazione, pubblico, musicisti – rispetto a una certa idea di jazz come musica capace di mettere insieme innovazione sperimentale e tradizione, cultura e gioia, amicizia e professionalità. E ancor di più, l’idea che il jazz non sia una musica da museo, ma un campo di pratiche vivo, non soltanto costitutivamente capace di contaminarsi in continuazione con le culture musicali più diverse (il festival si è aperto con una performance di musica indiana offerta dallo splendido duo canadese formato da Jonathan Voyer e Shawn Mativetsky, di cui ricordo soprattutto il sorriso sonoro costante), ma tenuto a contaminarsi, per rimanere se stesso facendosi sempre altro: dunque, l’alterazione come marchio di un’identità trasformativa a sua volta segnata dall’impegno – musicale, artistico, sociale, politico – rispetto alle pratiche improvvisative. Ecco, forse è questo il germe primario da cui cresce e vive il Guelph Jazz Festival: l’improvvisazione come modalità multiforme di produzione musicale, ma anche di vita, di interazione sociale, di dialogo (tra i musicisti, tra musicisti e pubblico, tra innovazione e tradizione, tra gioia e impegno, tra libertà e vincolo, tra progetto e imprevisto, tra individuo e collettività, tra suono e silenzio, tra arte e vita…). L’improvvisazione come credo sociale ed etico. Tutto ciò si riversa sulla musica, ma anche sui pensieri che grazie al Colloquium, che precede e accompagna il festival vero e proprio, partecipano alla festa. Tra musicologia e filosofia, sociologia ed etica, estetica e psicologia. L’idea che un festival possa ospitare una conferenza di questo tipo, coinvolgendo i musicisti anche attraverso questo dialogo (certo, un dialogo sulla musica o comunque a partire dalla o con la musica) è vincente (e convincente), e sarebbe bene esportarla qui da noi. È un modo efficace e pervasivo per allargare e intensificare la partecipazione e avvicinare musica, pensiero e società.
Prendiamo il pianista cubano (oggi attivo a Brooklyn) David Virelles. Si è esibito in duo con il percussionista (saggio ed elegante) Antonio María Romero , poi insieme a Jane Bunnett nell’omaggio allo scomparso Don Pullen, e poi ancora con il suo gruppo, spaziando così dalla musica tradizionale cubana all’improvvisazione sperimentale. Il suono è un puro timbro ECM, che Virelles consegue in modo originale, amalgamando l’uso dell’atonalità e delle dinamiche (impressionanti i fortissimi bassi) con uno squisito senso per la melodia cantabile della tradizione cubana, armonizzata in modo originale. Dalla frequentazione dei ritmi cubani deriva senz’altro la capacità di muoversi su e attraverso la pulsazione, a volte aggirandola, giocando con essa; alternando momenti di sospensione pulsionale e tonale a insistiti ostinati ritmici; pestando anche con mani e gomiti quando serve per generare cascate e tuoni sonori.
L’ariosità melodica è, invece, la bandiera di Marianne Trudel (pianista di Montreal che si è esibita anche a Torino recentemente; peccato, me la sono persa). L’ho ascoltata insieme alla virtuosa trombettista americana Ingrid Jensen. Due diverse personalità in dialogo (la pianista solare e sorridente, la trombettista seria, dura ed esigente) offrono una musica spesso lirica e aperta, intercalata da momenti di intenso e dinamico groove. Hanno proposto anche una performance ‘seminariale’, alla fine della quale hanno risposto a qualche domanda del pubblico. Ecco uno stralcio di questo dialogo.

D. “Che cosa pensate quando improvvisate?”
R. di Marianne Trudel: “Non penso. Sento, ma non penso perché altrimenti non potrei improvvisare. Ma ho studiato musica ed è tutto dentro di me. Non sono ‘vergine’; ho un background e tutto mi influenza. Sono molto ansiosa e questa improvvisazione è la mia meditazione. Più ascolto, meno penso. Quando ti puoi fidare della persona con cui suoni e sai che ogni cosa è possibile, hai fiducia nei tuoi mezzi e non ti interroghi su che cosa senti e cosa fai: you feel good and do not think too much”.
R. di Ingrid Jensen: “La musica è li, entra nel corpo. Ci sono così tante possibilità sonore (grazie agli strumenti, agli altri musicisti e al pubblico) che possono essere attualizzate. Quando suono, mi chiedo che cosa posso fare con lo spazio. Musica e note sono due cose diverse”.
D.: “Hai avuto buone relazioni musicali con gente con cui non andavi d’accordo?”
R. di Ingrid Jensen: “Spesso non succede, ma accade a volte per questioni razziali.”
R. di Marianne Trudel: “No, perché bisogna sentire fiducia.”

Quella fiducia che in modi diversi Jesse Stewart (estroso percussionista e artista; l’invenzione nella performance), il duo di Toronto Not the wing, not the flag (l’energia dell’improvvisazione sperimentale), il duo di Vancouver Peregrine Falls (musica robusta, squisitamente violenta), la sassofonista Jane Bunnett (la gioia dell’essere ancora lì a suonare), il grande clarinettista François Houle (al di là del virtuosismo), l’estroso trombettista Rob Mazurek (rumori, tromba, sensazioni, atmosfere), la pianista Myra Melford (classe cristallina e impegno etico per l’arte) sentono per la ricerca sonora sperimentale, l’avventura nel suono, l’estro dell’invenzione, la cura nelle scelte artistiche, l’attenzione per il momento performativo e l’impegno per connettere la libera creatività con il ruolo politico dell’artista nella società. Ho dimenticato sicuramente qualcuno (opps, per esempio la cantante e pianista blues Amina Claudine Myers, che ha incarnato il grande antico spirito blues nero, nella tradizione verace di Bessie Smith, esibendosi anche con Myra Melford) e non ho detto di come i diversi artisti sono stati capaci di amalgamarsi, alternando gigs programmati a incontri estemporanei messi su, appunto, all’improvviso, hic et nunc. Ogni volta, una performance entusiasmante.
Certo, tutto questo non sarebbe stato possibile senza colui che il festival ha ideato e guidato per circa vent’anni: Ajay Heble. Pianista, insegnante di inglese, teorico dell’improvvisazione, organizzatore instancabile, allievo di Jacques Derrida e, soprattutto, di Edward Said: vero e proprio animatore e pilastro del festival e di diversi progetti legati al rapporto tra jazz, improvvisazione e società. Quella del 2016 è stata l’ultima edizione da lui diretta (il che ha reso questa mia esperienza canadese ancor più memorabile). Una figura centrale degli improvisational studies contemporanei, sia per la qualità dei suoi contributi scientifici, sia per la capacità di organizzare volumi su questioni specifiche connesse all’improvvisazione, da diverse prospettive (non dimentichiamolo, è ancora il Direttore della rivista Critical Studies on Improvisation; eccovi il link: http://www.criticalimprov.com/public/csi/index.html). Ho avuto il piacere di intervistarlo.

AB: “Ajay, come puoi conciliare tutte queste attività: professore di Inglese, direttore artistico del festival, direttore della rivista “Critical Studies on Improvisation”? Come le hai messe insieme? Hai a volte difficoltà nell’attraversare tutti questi ruoli?
(nella foto da sinistra Alessandro Bertinetto e Ajay Heble) AH: “Eh! La storia è lunga. In breve, l’input è venuto dal jazz festival, che ha portato alla conferenza [alla quale in questa occasione anch’io ho partecipato: A.B.], che a sua volta ha portato alla rivista Critical Studies on Improvisation, e questo ha consentito l’allestimento di un progetto di ricerca che ora è divenuto internazionale. Sì, a volte ho difficoltà nel tenere insieme tutte queste attività, perché questo comporta una marea di lavoro – peraltro il mio lavoro è insegnare inglese! E, in questa veste di professore, ho svolto ricerche sulla letteratura canadese. Inoltre mi occupo molto di educazione ai diritti umani. Quindi, la difficoltà è tenere tutto insieme. Nel 2008 ebbi improvvisamente un infarto, mentre stavo tornando a casa in aereo da un convegno in Francia. È stato una sorta di avvertimento. Sta diventando sempre più difficile svolgere insieme tutte queste diverse attività. E a essere onesti, questa è senz’altro una delle ragioni per cui ho deciso di lasciare la direzione del Jazz Festival di Guelph. È giunto il tempo di mollare qualcosa. Il festival è un’opera d’amore, l’ho cominciato io, è stata una parte davvero importante della mia vita. È come la mia famiglia: ho conosciuto persone incredibili. Certo, il festival ha a che fare con la musica, ma per me il festival ha sempre significato rinvigorire la vita pubblica e lo spirito del dialogo nella comunità. Per questo, è davvero difficile lasciarlo, ma credo comunque che sia giunto il tempo di farlo.

AB: Nei tuoi scritti sottolinei costantemente la connessione tra etica ed estetica. Nel volume ‘Landing on the wrong note: jazz, dissonance, and critical practice’ (London, Routledge, 2000) hai scritto un capitolo davvero interessante sul’argomento, discutendo il caso di Charles Gayle, musicista sperimentale musicalmente eccellente, ma reazionario. Ecco quindi la domanda: può esistere una bellezza moralmente ‘cattiva’ secondo te?
AH: Si tratta di una domanda davvero difficile. Nel caso di Charles Gayle, per esempio, la questione è che io amavo la musica che lui produceva, ma quando saliva sul palco e diceva cose che trovavo davvero terribili e problematiche, era per me difficile sapere cosa fare. Certo, avrebbe potuto sostenere tutte quelle cose e non dirle sul palco. Pensiamo a Miles Davis, per esempio. Io amo la sua musica, è musica fantastica, ma se consideriamo la sua vita… è orribile. Però, a un certo livello, c’era una separazione. Non portava le sue idee sulla vita sul palco, rendendole pubbliche. Invece, il caso di Charles Gayle è diverso: le portava sul palco! Quindi, bisognava rispondere in qualche modo ed è per questo che ho pensato di avere il diritto di dire ciò che ho detto. Inoltre, dalla prospettiva del festival, mi scontravo con un vero e proprio dilemma. Voglio davvero che il pubblico senta le cose che dice? Un conto è la sua musica incredibile, ma quando sale sul palco e si cimenta nelle sue invettive…! Certo, so che è parte della sua personalità, e l’origine di questo comportamento è complessa. Il primo anno della mia direzione del festival mi sono dovuto scontrare con questa situazione. Escluderlo è stata una decisione difficile. Forse oggi avrei agito diversamente, non lo so. Magari gli avrei detto “Guarda, amo la tua musica, ma non voglio davvero che tu ti esibisca nelle tue invettive sul palco, perché sono orribili”. Non so, magari ora, dopo ventitré anni, avrei agito diversamente. Insomma… non conosco la risposta!

AB: Capisco, teoreticamente non conosci la risposta, ma hai dato una risposta pratica!
AH: Sì, hai ragione.

AB: Probabilmente, le risposte che si danno sulla questione dipendono anche dai differenti ruoli che una persona svolge. Ma voglio ancora incalzarti su questa questione, che mi sembra al centro dei tuoi interessi, anche pratici, per la musica. Perché il jazz esemplifica in modo così paradigmatico il modo in cui l’arte concilia etica ed estetica?
AH: Non sono sicuro che il jazz sia in merito più paradigmatico di altre forme artistiche. Credo che dipenda dal contesto. Come sai, il mio interesse ora è in particolare per la musica improvvisata. Non tutte le forme di jazz, ma anche non tutte le forme di musica improvvisata, offrono questo tipo di connessione tra etica ed estetica.

AB: Dunque la musica improvvisata non è, per se, necessariamente liberatrice…
AH: Non necessariamente! Piuttosto direi che la musica improvvisata che mi interessa è musica impegnata in una sorta di messa in questione di strutture fisse e oppressive. C’è sicuramente una lunga storia, specialmente nel contesto della musica africano-americana, di artisti che hanno usato la musica improvvisata per manifestare contro strutture sociali oppressive. Ed è questa storia che mi interessa. È senz’altro uno dei modi in cui la musica e l’estetica hanno a che fare con questioni sociali ed etiche. L’esempio che spesso faccio è quello di Paul Robeson, che nel ’50 fu privato dal governo degli USA del passaporto a causa del suo radicale impegno civile. Ed è famoso l’episodio in cui, durante una produzione del film Show Boat, si recò al confine rivolgendosi alle persone dall’altra parte improvvisando, non soltanto musicalmente, ma cambiando le parole della canzone Ol’ Man River. Così, invece di “Git a little drunk an’ you’ll land in jail”, Robeson cantò “You show a little grit and you land in jail”, per denunciare la falsa rappresentazione del popolo africano-americano. C’è una lunga storia che va in questa direzione: molti artisti africano-americani hanno usato la pratica dell’improvvisazione per impegnarsi in questioni etiche, per coltivare risorse per la speranza. In proposito, un altro esempio eclatante è senz’altro quello di Max Roach.

AB: Ajay, ritieni che la sperimentazione estetica nell’arte e nella musica sia una sorta di dovere morale?
AH: Sì! Da parte mia, sono senz’altro sommerso nella sperimentazione. Sperimentazione e innovazione giocano un ruolo cruciale nel modo in cui penso alla musica. Sì, per me c’è un certo tipo di bellezza e di valore nei processi della sperimentazione, riconoscendo che c’è spazio per il fallimento. Non sempre funziona, e abbiamo parlato di questo in Italia! [a Padova, il 30 aprile 2016 nell’ambito di un convegno organizzato da Marina Santi per il Jazz Day dell’UNESCO: AB]. Ma di per sé può essere un’incredibile opportunità per imparare e anche un importante momento pedagogico. A volte ho presentato alcuni concerti al Festival che, da un certo punto di vista, potrebbero essere giudicati un fallimento. O magari per alcuni si è trattato di un fallimento, per altri no. Ma dal mio punto di vista di presentatore mi è sembrato giusto lasciare che fosse il pubblico a giudicare: alcuni hanno amato, altri detestato lo stesso concerto; è parte della prassi dell’arte!

AB: Sì, quindi, il fallimento e l’errore sono anche questione di punto di vista, di contesto.
AH: Assolutamente.

AB: Il che dipende anche dalla capacità di vedere un evento non come fallimento, ma come opportunità?
AH: Certo, hai ragione. C’è qualcosa da imparare da queste situazioni. In qualità di presentatore, ma da qualsiasi prospettiva in realtà, c’è sempre qualcosa da imparare da questi momenti. Sono davvero contento di poter parlare di queste cose con le persone: è un processo sempre in corso. E questo potrebbe essere un modo per connettere l’aspetto estetico e l’aspetto etico dell’arte.

Ed è con un caloroso grazie ad Ajay che chiudo questo report, invitando gli appassionati di musica a fare un salto al Jazz Festival di Guelph il prossimo settembre. Ajay non ne sarà più il direttore, ma il timbro aperto e vivo che ha regalato a questa manifestazione risuonerà ancora nelle performance che avrete la fortuna di ascoltare.

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