Enomisossab Intervista

Sesta puntata della rubrica Chi fa da sé fa per tre: Enomisossab.

 

 

 

 

 

 

 

 

Di Marco Paolucci

uccio12@hotmail.com

23/01/2012: Su Kathodik seguiamo le vicende musicali di Simone Basso aka Enomisossab da parecchio, si può dire dagli esordi: artista “antiaccademico”, performer che usa la voce come uno strumento con cui esperimenta l’estremo spettro della vocalità umana, documentando rigorosamente il tutto in ogni uscita su album. Giunti al terzo incontro su cd con il nostro, si è pensato che un approfondimento possibile era dovuto per sapere con chi stavamo avendo a che fare, musicalmente parlando. Dall’altra parte una persona disponibilissima e pronta nel farci e nel farvi capire qualcosa di più della sua arte. A voi, come al solito, il risultato:

1.     Quali sono le tue origini come musicista? In particolare come è nata l’idea di utilizzare la voce? Perché hai scelto questo “strumento”?

Ho sempre privilegiato l’idea del canto e della performance.

Anche quando cominciai, nella cosiddetta scena alternativa fine anni ottanta, il tentativo – con tutta l’ingenuità dei diciassette anni di allora – era quello di andare oltre i limiti.

Succedeva soprattutto nella dimensione concertistica con tutto il corpo: ferite, tagli, provocazioni…

2.     Come è nato il nome Enomisossab?

Il progetto ha a che fare con la musicalità e l’utilizzo della voce.

Che è anche uno strumento musicale, ma non solo…

Enomìsossab suona benissimo e non presenta, stabilisce, un campo d’azione certo.

Nemmeno una nazionalità.

Preferisco quasi sempre il significante al significato della parola: il linguaggio è la chiave di ogni espressione ma molte volte diventa una gabbia.

La musica in quanto tale, talvolta sublime e geniale, è stata ed è l’espressione di un mondo autoreferenziale.

Di una industria.

Vorrei uscire dal supermercato.

 

3.     A chi ti ispiri quando componi? Quali sono i tuoi “cattivi maestri”?

      Ascolto tantissima roba ma non ho un genere di riferimento.

      I cattivi maestri, col tempo, li ho esorcizzati; anzi, li ho uccisi.

      E’ pure un metodo per riscoprirli e apprezzarli meglio: il distacco, a volte, è la giusta distanza.

4.     Segui qualche particolare metodo quando componi?

No, perché è il contesto che fa l’arte.

Chi pensa il contrario si illude.

La creazione non esiste: è l’ennesima sindrome di un animale che ha inventato, e si crede, Dio.

L’altroieri ero in un bar a bere un caffè: a un tavolino, al mio fianco, c’era una donna che presumo parlasse una lingua dell’Europa orientale.

Possedeva armonici naturali nell’ugola, la voce piena ma soffice, era decisamente più musicale delle canzonacce che sparava la radio del locale.

Ecco, sono sicuro che, prima o poi, provando, magari tra mesi, riprodurrò senza saperlo le caratteristiche di quei fonemi.

5.     Nei tuoi album alterni brani in forma di canzone a brani di pura ed estrema sperimentazione vocale. Come strutturi i tuoi lavori?

Faccio l’esempio de “La Merce Perfetta”: la struttura originale, che ho suonato dal vivo anni fa, era diversa.

Ma avevo già in mente un bordone musicale e tre stanze, separate, ovvero il risultato una dell’entropia dell’altra.

La prima aveva riferimenti etnici, taglia e cuci di dialetti e di un testo.

E’ diventata tonale e con un arrangiamento essenziale, asciutto.

La seconda, atonale, è pura sperimentazione vocale – diplofonie, glossolalia, scat – ed è curioso il fatto che l’ho cantata in due sessioni differenti a quattro mesi di distanza ed il timbro e l’altezza delle note erano sovrapponibili senza alcun problema.

La terza parte l’ho affidata ad altri, Balbo e Battistini, dopo aver stabilito solamente alcune coordinate: l’ho fatta mia, ascoltandola, prima di entrare in studio, ma senza provarla.

La parte vocale è quindi un’improvvisazione senza rete, al primo tentativo, senza tagli e abbellimenti di sorta.

Funziona perché si percepisce l’emozione; l’esecuzione perfetta – magari a tappe e con gli interventi prestabiliti – sarebbe stata falsa e sterile.

Nel missaggio ho inserito principi di numerologia, le dinamiche sono ispirate alla figura della spirale che è originale nel senso letterale del termine.

E che mi ha rincorso nelle mie esperienze: dalle visioni del Borromini alla lettura di Francesco Colonna, fino al teatro della Buzzinida.   

  

6.     Da un inizio prettamente in solo hai allargato progressivamente le collaborazioni nei tuoi album successivi. Ciò è derivato da un tuo bisogno di incrementare la “densità” delle tue opere?

Ne “La Merce” è un gioco di specchi: utilizzo, nella sezione d’apertura, l’improvvisazione di qualcuno – che stimo – per colorare la stanza.

Nell’ultima sono invece loro che mi consentono di improvvisare, senza l’ossessione del controllo della forma.

7.     Come è nata la collaborazione con la ballerina Elisa Spagone per il video ‘Burattini, burattinai. E corde’? Apre a nuove sperimentazioni/collaborazioni con altri forme espressive?

L’ho conosciuta in una frazione di uno spettacolo che feci in un luogo speciale, fuori dal mondo, a La Scarzuola*.

E’ bravissima, tosta, e ha parecchi punti in comune col sottoscritto.

Ha tecnica, ma nulla di accademico, ed una fisicità fuori dalle righe.

“Burattini, burattinai. E corde” nasce dal nostro incontro-scontro e dalla mia lettura di testi di neuropsicologia sulla mente verbale.

Dalla considerazione, banale, che “rabota” nello slavo ecclesiastico significhi “servitù”; in fondo è una prosecuzione delle tematiche del disco.

La performance l’abbiamo già realizzata con gli spettatori tra noi e la proporremo ad alcuni festival.

In questo decennio è sempre più evidente l’uccisione dell’attore e del palco, anche nella cultura popolare: pensiamo al fenomeno dei deejay che riempiono le arene.

Cosa avviene in scena è inutile, il clou è la massificazione fantasiosa della folla.

Il pubblico prima sacralizzava l’artista, irraggiungibile, oggi è invece rincorso, corteggiato, premiato.

Anche negli ambiti della cosiddetta avanguardia si cerca di soddisfarlo: è diventato, in sintesi, il vero protagonista.

Ho assistito a eventi (..) agghiaccianti, nei quali la musica era la colonna sonora dei vizi e dei feticci tecnologici di chi partecipava.

Questo intrattenimento da cocktail (o da birra) ha fagocitato l’anima dell’esibizione musicale.

Si deve rompere questa abitudine, farla in mille pezzi.

Sulla Buzzinida, nel cuore d’Italia, lasciando stare il significato esoterico del posto, un Aleph, ciò che conta è la concezione sonora del luogo: progettato come un’enorme cassa armonica.

Io cerco quel tipo di spazio, i riverberi naturali, per far rimbalzare la voce.

Troppi cantanti si affidano al microfono e soprattutto agli effetti; in verità l’effetto dovrebbe crearlo l’ugola stessa…

La voce è il primo vero strumento elettronico, analogico.

8.     Con chi ti è piaciuto collaborare?

Sarebbe più interessante chiedere a chi ha collaborato con il sottoscritto se gli è piaciuto!

9.     Con chi vorresti collaborare?

Ho già cominciato una collaborazione per una pièce di teatro musicale: siccome l’argomento trattato è delicato, e il progetto complesso, non vorrei annunciare qualcosa che, visti i tempi, magari non verrà ultimato.

Tocco ferro.

10.  Come vedi la scena ‘improvvisativa’ italiana?

Tempo fa partecipai a un’improvvisazione aperta romana; dialogavo con Luca Miti: cantavo rivolto alla meccanica di un pianoforte verticale e lui, con il pedale, tratteneva il suono e lo modulava.

C’era anche uno strumento a fiato che ci accompagnava.

Dieci minuti, forse quindici, di viaggio liquido.

Notevole, un’empatia delicatissima.

Poi, a un certo punto, è intervenuto un altro ed ha frantumato la magia del terzetto: un elefante in una cristalleria.

L’improvvisazione dovrebbe essere quasi tutto nel processo di apprendimento – che è continuo e progressivo – e nel cogliere l’ispirazione che porta a qualcosa di inedito o di “scandaloso”.

A quello scarto che ridefinisce l’ambiente sonoro e lo valorizza.

Se invece diventa un codice, si trasforma in uno stereotipo; esattamente come una canzone pop.

E’ quasi sempre un inventario di pattern: non sarebbe meglio sviluppare i più interessanti?

11.  Come vedi la scena ‘improvvisativa’ internazionale?

      Ho una cultura parziale sull’argomento.

      Avrei un’opinione meno traballante sulla musica contemporanea, certo rock, l’avanguardia storica,

      la vocalità popolare e non, il folk, il jazz, etc. 

12. Quale sarebbe quest’opinione e su chi verterebbe? Da qui poi chiarirmi quali sono i tuoi gusti     

      musicali?

Accadono cose e con i nuovi mezzi digitali è, almeno questo, più semplice incontrarle.

Ascoltavo un’asiatica che lavora in Polonia, giovanissima, Ayane Yamanaka, e ho trovato affascinante che – nella scrittura di un brano per un terzetto – era come se inglobasse i tic, i trilli, della tecnologia domestica che ormai ci ha invaso.

Ci sono musiche contemporanee parallele, alcune ufficiali, altre post-rock, che stanno esplorando sentieri simili.

Nel cosiddetto Bel Paese, a dispetto di trent’anni di catrame culturale, c’è una tradizione interessante, viva, di ricerca.

Vedo Kathodik,  leggo l’indirizzo fisico maceratese e penso a “Voyage that never ends” di Scodanibbio…

Sui riferimenti pop sono altrettanto onnivoro ma ho la pessima abitudine di non sopportare i profeti dell’ovvio.

Continuo invece a credere che in quell’ambito si debba essere brutti, sporchi e cattivi.

Quindi sono affezionato a quei generi, o categorie dell’anima, che si definiscono black music ed heavy metal.

Che solitamente osano strafregandosene, vivaddio, del buon gusto.  

  

12.  La classica domanda finale a cui non ci si può esimere: come vedi il tuo futuro, musica, vita, tutto il resto?

Penso di essere nel bel mezzo del cammin di nostra vita e non mi lamento.

L’ho sfangata abbastanza bene.

Avviene sempre qualcosa, qualche incontro, che apre una finestra, una nuova opportunità.

Ho altri progetti da realizzare e vedremo se ci riuscirò.

Lo scrisse Frigyes Karinthy: “La realtà è un prodotto della fantasia umana.”

Il resto è mancia.

* La Scarzuola è una costruzione progettata dall’architetto e artista Tomaso Buzzi,  sita a Montegiove nel comune di Montegabbione in provincia di Terni (n. d. r.)

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