The Scalas’ Big 9 ‘The Scalas’ Big 9′


(BadChili Records 2009)

Una raccolta di cover in salsa rocksteady. È questa, in estrema sintesi, la proposta musicale dei The Scalas’ Big 9, formazione piacentina nata nel 2003 dalle ceneri dei Kulatta Daskuatta, band dedita ad un più aggressivo ska-core. Dopo qualche aggiustamento nella line-up (volto a direzionare il sound verso il jamaican dancehall), la band produce un primo lavoro autoprodotto (“Runaway”) ed intraprende un tour che tocca diverse località dell’Italia settentrionale, accompagnata da gruppi nostrani quali Vallanzaska, Statuto, Ganjamama e Mr. T-Bone e da band straniere come i francesi Skawar, gli svizzeri Kalleskaviar e gli olandesi Rotterdam Ska Jazz Foundation.
Dopo un’ulteriore serie di cambi di line-up, il combo assume una fisionomia ben definita: alle voci troviamo Giuliano Cassanelli e Chiare Cesura; alle chitarre, Carlo Tumscitz e Marco De Paolis; al basso, Michele Serpesi; ai fiati, Simone Raimondi (tromba), Alessandro Marceddu (sax tenore), Simone Montanari (Sax Baritono) e Giovanni Sgorbati (trombone); alle tastiere Fabrizio Delledonne e alla batteria Andrea Cingalla. Stabiliti contatti con l’etichetta (piacentina anch’essa) BadChill Records di Marco Gandolfi, la band dà alle stampe “The Scalas’ Big 9”.
Registrato in presa diretta (l’intento era quello di catturare in studio l’energia live della band), il disco veste di arrangiamenti rocksteady (genere che si differenzia dallo ska per un ritmo più lento e che è considerato diretto precursore del reggae) sedici brani più o meno celebri. Il repertorio spazia da classici del jamaican sound anni ’60 (Green Mango di Tommy McCoock, Zion City di Laurel “The Godfather of Ska” Aitken, It’s Raining di Duke Reid, Trust no Man di Jimmy Cliff, Ska la Parisienne, Adorable You e You’re Wondering Now dei The Skatalites) a classici internazionali, portati al successo da svariati artisti (Perhaps, del trio Farrés/Davis/McCrea, Personality, della coppia Logan/Lloyd, e Jamaican Farewell, scritta da Erving Burgess), passando per I Don’t Need Your Love Anymore degli inglesi The Specials, Perfidia, scritta dal messicano Alberto Dominguez e qui riproposta nella versione inglese di Linda Ronstadt, Il Cielo in una Stanza di Gino Paoli e persino From Russia With Love, strumentale composto da John Barry per la colonna sonora dell’omonimo film di James Bond diretto da Terence Young nel 1963.
Nonostante l’eterogeneità della scaletta, la varietà stilistica dell’album è ridotta ai minimi termini (in fondo, gli ingredienti del genere sono quelli). È innegabile che il disco possegga un certo brio e che riesca a regalare comunque cinquanta minuti tutto sommato piacevoli; tuttavia è altrettanto incontestabile la scarsa originalità dell’operazione ed un’eccessiva leggerezza dell’insieme.
Insomma, un disco per aficionados.

Voto: 5

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