Sophia ‘Technology won’t save us’


(Flower Shop Recordings/City Slang 2006)

Sul suo sito, qualche mese fa, nell’annunciare la fine del registrazioni delle canzoni di ‘Technology won’t save us’, il suo nuovo album con lo pseudonimo Sophia, Robin Proper-Sheppard spiegava che il titolo era ispirato ad un episodio di cronaca, la morte per annegamento di padre e figlio durante un’escursione in riva al mare lungo le coste della Cumbria. I soccorritori, nonostante i mezzi a disposizione e il continuo contatto con le vittime grazie ad un telefono cellulare, non erano riusciti ad evitare il peggio a causa delle avverse condizioni atmosferiche.
In effetti, la precarietà e la fragilità della condizione umana (a dispetto delle meraviglie del progresso), la fallibilità della nostra natura, rimpianto e redenzione sono i temi che connotano questo quarto album (senza contare il live ‘De Nachten’ e la raccolta ‘Collections – One’) del musicista/cantautore americano ormai da tempo trapiantato nella terra d’Albione.
Trattasi di circostanza che non sorprenderà di certo chi ha familiarità con la sua produzione post-God Machine, da sempre caratterizzata da una profonda introspezione e pregna di malinconia, solitudine, distanza e un insopprimibile malessere esistenziale.
A colpire, semmai, fin dal primo ascolto di ‘Technology won’t save us’, è la svolta, rispetto al passato, operata dal Nostro con riguardo agli arrangiamenti, per i quali Proper-Sheppard ha optato, in diverse tracce, per una soluzione orchestrale, ricorrendo con accortezza a tastiere e/o archi e/o fiati, dei quali ha sapientemente fatto un uso molto “impressionista”, al fine di dipingere idealmente luoghi e scenari o di dare voce, mediante suggestioni ambientali, a stati d’animo e sensazioni, cercando di illustrare con un linguaggio diverso quanto le parole dei testi non riescono a dire.
Esempio pregevole ed eloquente di questo nuovo corso ci viene fornito già dal brano iniziale, che dà titolo all’opera: una traccia strumentale, che, con grande efficacia, rievoca il drammatico succedersi degli eventi in occasione dei fatti di cui sopra: in principio, la chitarra, circondata da violini e oboe, richiama le iniziali spensieratezza e serenità delle due vittime, ignare di quanto il destino di lì a poco avrebbe riservato loro; il progressivo incupimento dei suoni e l’irrompere minaccioso di un tamburo dal battito irregolare annunciano l’improvviso presentarsi del pericolo e descrive il sussulto interiore provocato dalla presa di coscienza della sua gravità, risolvendosi infine una lacerante sciabolata di rumore che segna la tragica conclusione con il sopraggiungere della morte.
In Where are you now tastiere e violini rievocano l’incipit di un nuovo giorno, il lento rimettersi in movimento della vita con il progressivo dissolversi del buio notturno che lascia spazio al pigro albeggiare. In questo scenario, la voce narrante, in preda ai postumi di una nottata all’insegna di eccessi etilici, affronta a viso aperto i ricordi e i rimorsi dai quali è assediata (“It’s 5 a.m./I stumble down Oxford Street/The whiskey and the gin they ain’t helping things/If I could speak I’d call out your name/If I could walk I’d run back to you again/But where are you now?”).
La tromba quasi antemica di Birds ci riporta, almeno in parte, all’inaspettata leggadria che nel precedente ‘People are like seasons’ avevamo incontrato nella solare e spavalda Holidays are nice (“Isn’t it beautiful /Our lack of control/No prayers unanswered/No wishes ignored…Come on, hurry up now, we’re a day late for Spring/We can sneak in through April/We won’t miss a thing”), mentre vagamente allucinata e pervasa da una sottile angoscia è l’atmosfera che viene creata quale cornice dell’accorata invocazione di Weightless (“Give me love or give me hate/Give me anything that’s not just okay/Make me laugh or make me cry/Something, anything, to feel alive”).
Altrove le chitarre non mancano comunque di tornare in primo piano ed essere protagoniste.
E’ acustica e solitaria, alla maniera dei primi due album targati Sophia, quella con la quale Proper-Sheppard si accompagna nell’autobiografica Big city rot, per narrare, con una voce insolitamente roca e poco più che sussurrata, il tormento che ha segnato la gestazione dell’album e che, ad un tratto, lo ha portato ad allontanarsi da Londra per ritirarsi nelle campagne del Suffolk (dove poi il disco è stato effettivamente registrato).
Sonorità elettriche sono invece quelle del singolo Pace (un pulsante ed elegante flirt con il pop, intelligente nella musica, con un tocco di tastiere alla Weezer/Rentals, e, come sempre, mai banale nei testi – se tutte le canzoni radio-friendly suonassero così, questo sarebbe un mondo migliore…) e della straziante Lost (She believed in angels…), i cui toni drammatici vengono amplificati da repentine dilatazioni (a dire il vero molto shoegaze) con il grido di Proper-Sheppard (“Please give me one last breath before I pass from this place/One last breath for the wicked/ One last breath for their sin/One last breath for the lost, the nameless and those that I forgot/One last breath to ease the darkness in those I love when I’m gone/One last breath to say goodbye/Please don’t mind me as I Iinger on”) che riecheggia nello spazio oscuro che improvvisamente viene ad aprirsi.
Rimandano infine direttamente ai trascorsi con i God Machine le furiose distorsioni della conclusiva, e ancora strumentale, Theme for the May Queen n. 3.
’Technology won’t save us’ è un disco profondamente diverso da qualsiasi altra cosa Robin Proper-Sheppard ci abbia mai proposto fino ad ora, più complesso negli arrangiamenti e più grave nei toni, il cui ascolto richiede un certo impegno. Saranno gli anni a venire ad aiutarci a capire se questo è il suo capolavoro. Per il momento, ne salutiamo con entusiasmo l’uscita e lo promuoviamo a pieni voti.

Voto: 10

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Autore: a.crestani@yahoo.com