24. Rassegna Di Nuova Musica: Dal Nuovo Mondo Parte Terza.


Report Dalla Manifestazione E Intevista Al Maestro Terry Riley.

Di Filippo Focosi

filippofocosi@libero.it

Per il terzo anno consecutivo la tradizionale Rassegna di Nuova Musica di Macerata, ideata dal Maestro Stefano Scodanibbio, ha presentato al pubblico che ha riempito il Teatro Lauro Rossi dal 28 Febbraio al 3 Marzo 2006 un’ampia selezione di musica scritta da autori americani del XX secolo. Tra questi, le scelte di Scodanibbio hanno privilegiato coloro che più di tutti hanno saputo rinnovare il linguaggio musicale: ampio spazio quindi a compositori “storici” come Ives, Nancarrow, Cage, Crumb e ai “minimalisti” Reich e Riley.
Ognuna delle cinque serate della Rassegna si è aperta con l’esecuzione di un “studio” di Conlon Nancarrow, esecuzione resa possibile dall’allestimento di un pianoforte meccanico ideato e suonato − ma sarebbe forse più appropriato dire “fatto suonare” − dal musicista Godfried-Wilem Raes. Gli Studi di Nancarrow esemplificano uno degli stilemi compositivi salienti della musica americana (anche di quella più recente, come testimonia la sonata per violino e pianoforte Road Movies di John Adams, eseguita nel corso dell’ultima serata), ovvero la ripetizione incalzante di micro-motivi che si sviluppano e si intersecano in maniera progressiva e meccanica, dando vita, come nel caso di Nancarrow, ad incastri ritmici di grande complessità, mitigata e “umanizzata” da frequenti accenni al mondo del jazz e del blues. Un altro autore importante ma poco conosciuto al quale la Rassegna di Nuova Musica ha dato spazio è George Crumb. Crumb è un personaggio singolare e difficilmente classificabile: le sue composizioni riflettono tanto l’influenza di Debussy e Bartok quanto l’apertura verso contesti culturali non accademici − la musica africana ed orientale soprattutto − ed extra-musicali − l’organizzazione delle sue opere riflette spesso un ordine derivato dalla numerologia e dall’esoterismo. Questa inusuale alchimia (termine che ben si adatta a Crumb) ha prodotto capolavori come Processional e Vox Balenae, ma anche lavori non esaltanti come quelli eseguiti in questa occasione, ovvero i Four Nocturnes e An Idyll for the Misbegotten.
Il grande protagonista della rassegna è stato però John Cage, autore che più di ogni altro rappresenta l’autenticità dello spirito americano, in virtù del suo porsi al di fuori della tradizione della musica classica occidentale, per mettersi alla ricerca di strade creative non ancora battute. Questo “porsi al di fuori” è però radicalmente diverso da quell’atteggiamento − ascrivibile a determinate tendenze della musica europea del Novecento (tendenze che partono da Schoenberg ed arrivano a Boulez) − di rottura con la tradizione e di creazione di un linguaggio (nella fattispecie quello dodecafonico e atonale) in aperto contrasto con essa. L’atteggiamento di Cage e di altri autori americani (si pensi a Henri Cowell e a Lou Harrison, dei quali sono stati eseguiti rispettivamente Homage to Iran e First Concerto) non è, a differenza di quello di Schoenberg e di Boulez, un atteggiamento di reazione alla tradizione della musica classica europea e di negazione dei presupposti sintattici e semantici sui quali questa si è formata; semplicemente egli, in quanto non europeo, non sente la necessità di confrontarsi con tale tradizione, e si sente (giustamente) libero di battere altre vie, guardando anche ad altre e meno conosciute tradizioni musicali, come quella orientale (che lo influenzerà anche dal punto di vista filosofico). Ed è proprio guardando ad Oriente e approfondendo lo studio della musica per percussioni (ovvero quanto di più lontano vi possa essere dalla musica di Beethoven, come lo stesso Cage soleva ripetere) che il compositore americano produce tra gli anni Trenta e Quaranta i suoi lavori più belli e significativi, come le Constructions − geniale sintesi di rigore costruttivo e di fisicità sonora − Living Room Music e Credo in US (tutti eseguiti a Macerata) − nei quali sono addirittura ravvisabili anticipazioni della musica rap e hip-hop (specialmente nell’uso in chiave sia melodica che ritmica del parlato). Quando però Cage nel secondo Dopoguerra, nel tentativo di ribaltare il modo di pensare la musica che ha caratterizzato la cultura occidentale, introdurrà il principio − racchiuso nella famosa frase “tutto è musica”, che inevitabilmente e nichilisticamente si può rovesciare nel suo contrario, ovvero “niente è musica” − dell’aleatorietà nella sua musica, questa perderà molto della sua carica eversiva e della sua efficacia comunicativa, allineandosi invece alle contemporanee sperimentazioni europee (come testimonia il suo carteggio con Boulez). Ne abbiamo avuto una prova a conclusione della terza serata della Rassegna, quando ci è toccato ascoltare il dissonante, caotico, insostenibile (e per di più lungo!) Concerto per Piano e Orchestra − va sottolineato che l’effetto caotico è qui voluto, in quanto frutto di procedure compositive casuali, laddove nei lavori di Boulez il caos è il frutto indesiderato di complessi calcoli matematici: non so bene però se la maggiore coerenza di Cage segni un punto a suo favore o costituisca piuttosto (com’è più probabile) un’aggravante.
La tesi che il Cage più fecondo sia quello degli anni Trenta e Quaranta, è supportata anche dal successo che a partire dagli anni Sessanta ha accompagnato i cosiddetti “minimalisti”. Difatti, opere (anch’esse eseguite per l’occasione) come Drumming di Steve Reich − dove si fondono armonicamente la razionalità occidentale e la ritualità arcaica di matrice africana − o Tread on the Trail di Terry Riley − brano costruito sulla reiterazione e sulla dilatazione di un contagioso fraseggio tra il jazz e il funk − nascono entrambe dalla ribellione tanto verso l’aleatorietà quanto verso la serialità, e si muovono piuttosto lungo la direzione tracciata dal “primo” Cage, con una più spiccata tendenza rispetto a questi alla riduzione del materiale tematico e ritmico sul quale lavorare e alla ripetizione delle cellule musicali utilizzate. Ciò che rimane della libertà dalle regole propugnata dal “secondo” Cage è sostituita semmai dall’impiego di pratiche improvvisative, mai del tutto scisse però dalla composizione: l’opera di Terry Riley, l’altro grande protagonista della Rassegna maceratese, si può leggere proprio sul doppio filo della scrittura e dell’improvvisazione, dalla cui amalgama sono nati sia Omaggio a La Monte Young, presentato qui in prima assoluta, sia il già citato Tread on the Trail. Un regalo inatteso (in quanto non previsto dal programma) per la platea presente alla quarta serata è stata poi la rilettura al pianoforte da parte dello stesso Riley di alcuni bellissimi brani da lui composti per il Kronos Quartet e tratti dal ciclo di quartetti per archi Salome Dances for Peace, nei quali emerge una brillante e personale ispirazione melodica, venata di ricami jazzistici e suggestioni orientali. Proprio il recupero della componente melodica è uno dei tratti salienti del secondo minimalismo, degnamente (anche se non diffusamente, come forse avrebbe meritato) rappresentato nella Rassegna di quest’anno dallo stupendo New York Counterpoint di Steve Reich, eseguito nella versione per 12 sassofoni che ne accentuano i ritmi sincopati, e dalle Sonate per violino e pianoforte di John Adams e di Michael Daugherty (quest’ultima particolarmente aggressiva e trascinante), oltreché dalle Vichita Vortex Sutra per pianoforte di Philip Glass.
Nonostante la complessità delle musiche proposte e la conseguente difficoltà di esecuzione (peraltro brillantemente superate dagli eccellenti musicisti che si sono avvicendati sul palco del Teatro Lauro Rossi) e di ricezione delle stesse, la manifestazione organizzata da Scodanibbio ha registrato per il terzo anno consecutivo un successo di pubblico davvero notevole ed inedito, e non solamente nelle serate in cui è stato presente il grande Terry Riley. Questo dato mi porta a fare la seguente constatazione: sperimentalismo e comprensibilità di un linguaggio artistico non sono termini antitetici. Ciò non significa che la comprensione sia immediata: per capire ed apprezzare una disciplina artistica, i suoi prodotti e le innovazioni linguistiche che le attraversano ci vogliono pratica costante ed affinamento delle nostre capacità percettive, oltreché gusto e sensibilità. Tuttavia il rinnovamento dei linguaggi artistici come la musica non può prescindere da quelle convenzioni che attestano l’esistenza di un senso comune agli artisti e al pubblico, e che procedono dalla sedimentazione di tecniche unanimemente riconosciute come efficaci soluzioni a problemi estetici condivisi. Sperimentare senza tener conto di questo senso comune equivale a fare un salto nel vuoto: il fallimento estetico di opere come il Concerto per Piano e Orchestra di Cage ne è la testimonianza. Rinnovare un linguaggio artistico non significa fare tabula rasa con il passato, bensì implica un confronto con esso. Solo dalla profondità di tale confronto e dalla libertà individuale che lo informa può prodursi una musica autenticamente originale: prova ne sono il primo Cage, Harrison, Reich e Riley, i quali hanno creato nuovi mondi espressivi non ripudiando la tradizione musicale in toto, bensì studiando tradizioni estranee alla cultura occidentale eppure per certi aspetti integrabili con essa, secondo sintesi sempre diverse e personali. L’auspicio, da spettatore interessato, è quindi che si prosegua sulla strada − tracciata da questa significativa parentesi dedicata alla musica del Nuovo Mondo − dell’ascolto impegnativo ma emotivamente coinvolgente: le musiche per il XXI secolo sono molteplici, e la Rassegna di Nuova Musica di Macerata è uno dei luoghi ideali per la loro diffusione.
 

INTERVISTA A TERRY RILEY

Terry Riley (California, 1935), uno dei più importanti compositori viventi, è unanimemente riconosciuto come il fondatore del minimalismo. La sua composizione In C del 1965, con la sua innovativa sintesi di scrittura e improvvisazione e con la sua apertura alle suggestioni provenienti dall’Oriente, influenzò intere generazioni di musicisti sia dell’area colta (Reich, Glass, Adams) che popolare (Tangerine Dream, Soft Machine, The Who). Dopo essersi dedicato negli anni Settanta principalmente all’improvvisazione, Riley è tornato negli anni Ottanta alla composizione, grazie anche alle richieste del Kronos Quartet, per il quale egli ha scritto numerosi ed acclamati quartetti per archi. Di recente Riley ha fondato una sua etichetta discografica, la Sri Moonshine Music, per la quale ha registrato due cd di proprie musiche (Atlantis Nath e I Like Your Eyes Liberty). Ho avuto modo di intervistarlo in occasione della recente Rassegna di Nuova Musica di Macerata, nella quale Riley è stato il protagonista assoluto.

FILIPPO FOCOSI: Maestro Riley, Lei è conosciuto soprattutto per i Suoi pionieristici lavori In C e A Rainbow in a Curved Air, che verso la fine degli anni Sessanta proposero un modo di comporre radicalmente innovativo e assai differente dalla tradizione della musica classica occidentale. Personalmente sono molto attratto anche dalle opere da Lei composte a partire dagli anni Ottanta, quando Lei iniziò la Sua lunga e fruttuosa collaborazione con il Kronos Quartet: a mio avviso, le Sue Salomé Dances for Peace rappresentano una vera gemma nell’ambito della letteratura per quartetto d’archi del XX secolo. Trovo che tanto i succitati quartetti per archi quanto molte altre opere da Lei composte negli anni Novanta presentino un linguaggio meno rivoluzionario rispetto ai Suoi primi lavori e maggiormente legato alla tradizione classica occidentale (ad es. le Salome Dances for Peace rinviano ai quartetti di Bartok, il ciclo chitarristico The Book of Abbeyozzud risente in parte dell’influenza della musica spagnola e sudamericana, il recente Uncle Jard per quartetto di sassofoni, pianoforte e voce ammicca al ragtime). Considera queste opere come una naturale evoluzione dei Suoi primi lavori o crede che esse segnino una differente ed alternativa direzione nello sviluppo della Sua musica?
TERRY RILEY: Entrambe le cose. La mia ispirazione musicale, la mia poetica espressiva è ciò che accomuna e lega tutti i miei brani; ciò che li differenzia, e che divide soprattutto i lavori scritti a partire dagli anni Ottanta da quelli precedenti, è il medium espressivo attraverso il quale tale ispirazione si manifesta. Quando il Kronos Quartet mi convinse a scrivere per loro dei quartetti d’archi, dovetti lasciar da parte la pratica improvvisativa alla quale mi dedicavo da anni, per concentrarmi di più sulla scrittura musicale: questo è stato il vero cambiamento della mia musica. Ma, che io improvvisi o che componga musica scritta, la mia vena creativa non cambia, ma semplicemente si rivela in modo diverso a seconda del medium espressivo utilizzato.

F. F.: Tre anni fa ho incontrato i Bang on a Can a Venezia ed ho chiesto loro cosa pensassero della scena musicale contemporanea: loro si sono dichiarati entusiasti del presente e ottimisti per il futuro. Anche Lei è ottimista al proposito?
T. R.: Devo esserlo! Credo che vi siano molti buoni compositori in giro; purtroppo però non è facile, nel mondo musicale contemporaneo, conquistare una certa visibilità. A che serve scrivere della buona musica, se poi nessuno la può ascoltare? Le principali etichette spesso si prendono troppo denaro e ti impongono una loro linea estetica, non dandoti molta libertà di scelta. Credo che sia giunto il momento di rivoluzionare il mercato discografico, ed il primo passo da compiere in tal senso consiste nel cercare canali di diffusione della propria musica alternativi alle grandi etichette discografiche; io stesso ho creato una mia etichetta, la Sri Moonshine Music, il cui catalogo, insieme al resto della mia discografia, è visitabile ed acquistabile nel mio sito (www.terryriley.com).

F. F.: Quali sono i Suoi progetti per il futuro?
T. R.: Ci sono molte mie composizioni che ancora non sono state registrate: il mio primo impegno sarà quindi la produzione di nuovi cd per la mia etichetta, il primo dei quali sarà costituito da alcune mie rivisitazioni di standards jazzistici.