Verdena ‘Wow’


(Universal 2011)

Verrebbe quasi da racchiudere tutto ciò che c’è da dire di “Wow” in quel piccolo gioiello che è Scegli me, overture che apre questo ambizioso doppio album dei Verdena: Siamo un giorno senza luce ormai / ma scegli me: un dilemma senza soluzione, un lambirsi degli opposti, come se ogni creazione non possa che essere illuminata da una luce obliqua. Come se alla speranza non possa che accompagnarsi la paura. Come se al riverbero pianistico non possa che congiungersi una percussività energica ma trattenuta. Intensità e struggimento, come ogni vera emozione.
E d’altra parte sarebbe ancora riduttivo scoprire l’ultimo album della band bergamasca alla luce di una sintesi degli opposti. Quello che è riuscito ai Verdena è creare un album che sappia essere coraggiosamente retrò senza scadere nel citazionismo, in grado di misurarsi con una classicità attuale e mai in copia carbone, come accade a tanti epigoni nostrani. Una nuova strada, dopo il convincente ‘Requiem’, datato 2007, che chiudeva le asprezze della prima fase della loro carriera.

’Wow’ è il piccolo “album bianco” del coeso trio, prodotto, per la prima volta, dallo stesso Alberto Ferrari, spalleggiato come sempre dal fratello Luca alla batteria e dalla piccola, grande Roberta Sammarelli al basso. E dopo quattro anni di attesa, siamo di fronte a un caleidoscopio di influenze in cui perdersi, di suggestioni continue, di echi che si rincorrono senza sosta. Caleidoscopio che deflagra e si scompone, ma avanza inesorabile, supportato da una luce che irradia chi lo ascolta, e che dà costantemente l’impressione di una complessità incredibilmente naturale, autentica. Come giudicare altrimenti un disco in grado di far dialogare con efficacia il folk psichedelico con i riff sabbathiani, pastiche tardogrunge e arrangiamenti da repertorio battistiano; come non evocare Lennon e i Motorpsycho, riuniti un una session lisergica al Rancho de la Luna sotto la supervisione di Josh Homme.
Ventisette canzoni, due dischi, una smisurata ambizione alla creatività tout-court. Non hanno paura di osare, i Verdena, e si fanno beffe delle proprie stesse citazioni: si prenda Loniterp, nient’altro che l’anagramma di Interpol, da cui mutuano un riff tipicamente wave, per poi sbeffeggiarne la prospettiva in una specie di samba percussivo che ricorda simpatie stones-iane per il demonio.
E da lì, un susseguirsi di schegge, spesso fugaci, ma incredibilmente cesellate, che ravvivano senza quasi mai un attimo di cedimento gli oltre ottanta minuti di musica: il blues dalle venature raga di Per sbaglio, e quello malato e polveroso di Badea Blues, sospesi fra mellotron celestiali e violini ondivaghi, lo stoner di Mi coltivo e Attonito, naturale eredità del patrimonio hard del gruppo, il folk obliquo e straniante di Razzi arpia inferno e fiamme, uno scintillante Miglioramento (Niente dirò e tu non capirai / affronta la rivoluzione allo specchio), in bilico tra passerelle sonore pulsanti alla MGMT e una sorprendente resa disco funk che occhieggia al pop italico di fine anni Settanta, cui si accompagna la minisuite Sorriso in spiaggia, lanciata da echi barocchi e riportata a terra da contrappunti pianistici quasi da colonna sonora noir. Oppure l’esaltante caterpillar di Lui gareggia, concentrato di bassi distorti e rullate improvvise, la ninnananna acida de Le scarpe volanti, persino un divertissement barrettiano come A capello o i convulsi cambi di ritmo che stravolgono la beatlesiana Rossella roll over. Mentre La volta, posta quasi in chiusura, è un’ossessione psichica suburbana che sorprende per le geometrie dei migliori Oneida, tra synth marziali e chitarre stridenti a scandire la fuga accorata. Vera ossatura dell’album sono però soprattutto le ballate, in cui, come nel brano d’apertura, le architetture del piano, o più raramente della chitarra acustica, trovano coraggio e sostanza attraverso le possenti nervature della sezione ritmica. È il caso di una Castelli in aria cristallina e struggente come una ballata floydiana, o di Tu e me, dolcissimo cammeo a una cieca complicità amorosa consumata su un letto d’archi. E infine, la sfuggente e diafana Lei disse, posta a chiusura del disco, speculare e quasi negativo fotografico del brano che apriva il disco: come se lo stesso dilemma, stringere a sè mondi distanti, fosse sussurrato, flebilmente, quasi un’eco del grido che fu; ma mai svanito, se l’ultima parola che ascoltiamo è l’imperativo cui nessuno può sottrarsi: Amami.
Proprio le liriche, da sempre in qualche modo strumentali alla resa sonora delle canzoni dei Verdena, sembrano fungere da filo conduttore dell’intero disco. Un album sull’assenza, più che sulla perdita, in cui le parole, e persino la voce di Alberto Ferrari, sembrano comparire per sottrazione, rispetto al magniloquente impianto sonoro, ma si impuntano nel tessuto emotivo, come a invocare un bisogno urgente, spesso irreale (Io non ho che lei su di me / e so che non passerà. Forse lei spazio non ha), irrazionale e inadatto all’evidente, ma stretto in un pugno, come a volerci tenere noi stessi, per non perderci definitivamente (È inutile e non potrei / fermare l’idea che viene e va, / tu e me).

Gratificante scorgere tanta ricchezza artistica in un gruppo finalmente, definitivamente, maturo e all’altezza delle aspettative. Chissà che possa essere un esaltante viatico per nuove prospettive musicali, a questo punto non domandarselo sarebbe ingiurioso. Per il momento, ci basterebbe guardare a questo disco come a un piccolo classico: uno specchio della difficile semplicità del reale, e stupirsene, come un bambino con in bocca quel “wow!” di fronte al variopinto trambusto delle evenienze sotto il sole, tentando di dar loro, chissà inutilmente, un ordine.

Voto: 8

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Autore: s_passaretta@yahoo.it