Sentieri Selvaggi

Percorrendo i “Sentieri Selvaggi” della contemporaneità musicale. Una conversazione con Filippo Del Corno.

 

Di Mara Lacchè

mara.lacche@tin.it

Si da poco conclusa la stagione di musica contemporanea promossa dall’associazione Sentieri Selvaggi, dedicata quest’anno alla produzione musicale proveniente dall’America che i primi esploratori nel XVI secolo chiamavano Nuovo Mondo: «il continente sconosciuto appena incontrato nella navigazione verso l’India» e che da allora, sostengono i fondatori dell’ensemble, «ha sempre rappresentato una frontiera dell’immaginario in continua trasformazione».

New York New York, ovvero il clima  di elettrica e inquieta tensione che anima la città forse più vivace degli Stati Uniti, è stato infatti il protagonista del concerto di chiusura della stagione 2010 dell’ensemble Sentieri Selvaggi.

Il 18 maggio 2010, la sala Fassbinder del Teatro Elfo Puccini di Milano ha così ospitato ben tre prime esecuzioni: due italiane, ovvero Steel Works di Anna Clyne e Double Sextet di Steve Reich, e una assoluta, Dulle Griet di Giovanni Verrando. Quest’ultima partitura, ispirata alle visioni bruegheliane nell’omonimo dipinto che sembra preannunciare gli inferni metropolitani del XXI secolo, si associa perfettamente al panorama urbano newyorkese che si trasfonde nelle partiture dei due compositori faro della Grande Mela.

Abbiamo recentemente incontrato per Kathodik il compositore Filippo Del Corno, fondatore di Sentieri Selvaggi insieme a Carlo Boccadoro, anch’egli compositore e direttore d’orchestra, e al giornalista Angelo Miotto.

Nel corso di questa piacevole conversazione, nella sede milanese dell’associazione culturale, Filippo Del Corno ci ha parlato di questa realtà musicale, che continua a percorrere, con performance, dischi, concerti, incontri e attività didattica, e soprattutto in mezzo alle mille difficoltà del periodo storico in cui viviamo, le impervie strade della musica contemporanea.

Sentieri Selvaggi nasce nel 1997 come associazione culturale con lo scopo di riunire musicisti e compositori e avvicinare il pubblico alla musica contemporanea. Può svelarci da cosa deriva la scelta del nome per questa associazione?

Il nome “Sentieri Selvaggi” deriva dal titolo di una trasmissione radiofonica – un’ora di musica contemporanea dal vivo, la domenica mattina -, che avevamo su Radio Popolare a metà degli anni ’90. Nel parafrasare il titolo della versione italiana del film di John Ford (in lingua originale ‘The searchers’, 1956), l’idea base era quella di percorrere i “sentieri” che attraversano la creatività musicale dei nostri giorni, in particolare quelli inesplorati, ramificati, impervi e affascinanti, “selvaggi” per l’appunto.

In effetti, l’associazione con il titolo del western di Ford sembra già rivelare il vostro interesse per il panorama musicale statunitense…

In realtà questa è una connessione più casuale: non abbiamo pensato in maniera esplicita all’idea del western e del film di Ford, ma ci sembrava un nome ironico. Insomma un’idea spiritosa che abbiamo percorso fino in fondo, anche per la non sfrontata tendenza alla dissacrazione dei luoghi comuni che ci caratterizzava.

Per quanto riguarda invece le collaborazioni  che avete instaurato con i compositori, troviamo molti nomi importanti, di sicuro richiamo, e per lo più statunitensi: Michael Nyman, Philip Glass, David Lang, James MacMillan, Steve Reich, solo per fare qualche nome. Può parlarci delle ragioni dell’avvicinamento a musicisti conosciuti anche dal grande pubblico?

Questa collaborazione è nata innanzitutto dal nostro apprezzamento nei confronti della produzione di autori come Nyman o Glass, purtroppo disprezzata dalla critica ufficiale italiana. La loro esperienza è stata molto importante per la nostra stessa attività di compositori, oltre che di musicisti. Nel mio caso, penso soprattutto a Steve Reich e Philipp Glass. Il nostro percorso quindi è stato quello di presentare la loro musica, cercando però di accendere la luce su quella produzione meno nota nel nostro paese, proprio perché sganciata dai circuiti commerciali. Ad esempio Nyman era noto quasi esclusivamente per le colonne sonore, dalla grande diffusione commerciale. Noi abbiamo invece voluto segnalare l’importanza delle partiture che tale autore ha composto e continua a comporre, ad esempio per organici più “classici”, quindi musica da camera, teatro musicale, e così via,  a cui abbiamo dedicato tutta la nostra attenzione di esecutori.

Per noi, è fondamentale il rapporto con l’autore, visto che nella maggior parte dei casi abbiamo a che fare con opere di compositori fortunatamente viventi. Con Nyman abbiamo un rapporto molto diretto, concreto, con Glass la relazione è un po’ più sfumata. In ogni caso il nostro intento è quello di rendere partecipi gli autori, da cui riceviamo tra l’altro segnali notori di incoraggiamento, e in alcuni casi, una vera e propria volontà di collaborazione. In questo senso, il percorso più bello è stato quello fatto con Nyman: nato con il nostro lavoro sulle sue partiture, si è consolidato con l’allestimento di The man who mistook his wife for a hat a Genova (Festival della Scienza 2003); in quell’occasione seguì infatti le prove, la generale e la prima. Da lì nacque il desiderio di portare avanti altri progetti insieme: abbiamo quindi eseguito Acts of Beauty, partitura scritta da Nyman proprio per noi e per Cristina Zavalloni, e poi abbiamo lavorato al grande progetto di Something connected with energy, sempre per il Festival della Scienza di Genova (2008), poi replicato a Milano e a Lecce.

Tendenzialmente, quindi, le molle sono due: da una parte, far scoprire un lato di questi autori poco conosciuto e, soprattutto in Italia, un po’ disprezzato dalla critica ufficiale, a nostro avviso un po’ ingiustamente; dall’altra, il desiderio di stabilire un rapporto più stretto con compositori che abbiamo conosciuto personalmente, e con cui abbiamo lavorato.

Devo dire che tali autori, pur essendo eseguiti da migliaia di ensemble in tutto il mondo, hanno sempre riconosciuto la serietà del nostro lavoro di approfondimento delle loro partiture.

In questa prospettiva, alla base di questo fecondo rapporto creativo con tali  autori, è possibile individuare delle reali affinità stilistiche fra i vostri rispettivi linguaggi compositivi?

In realtà non con tutti: ad esempio, con NymanCarlo Boccadoro né io abbiamo particolare tratti in comune; però ne apprezziamo e stimiamo il lavoro. Lo stesso vale anche per altri autori. Del resto, l’ampiezza del nostro repertorio, del nostro campo d’azione, dipende dalla precisa volontà di non essere etichettati come un ensemble legato a una certa “scuola” o ad un determinato “linguaggio”. Al contrario la nostra idea di programmazione è stata sempre quella di eseguire le musiche che riteniamo “importanti”, indipendentemente dal linguaggio o dall’autore.

Perciò ci capita di accostare musicisti che hanno linguaggi diversissimi, da Ivan Fedele a Michael Nyman, da Philipp Glass a James MacMillan. Ma questa è una caratteristica che abbiamo vissuto sempre con grande serenità, poiché prescindiamo dal nostro gusto musicale, scegliendo anche opere che magari non ci piacciono particolarmente, ma che giudichiamo importanti, ad esempio perché segnano una svolta nell’ambito di un linguaggio, oppure che rappresentano una chiave di volta in un percorso personale. La sola cosa che  evitiamo come la peste tutto ciò che “puzza” d’accademia, tutto ciò che riteniamo come reiterazione di gesti accademici che hanno come unico scopo l’inserimento in certi circuiti della musica contemporanea.

Questo “antiaccademismo” si ripresenta d’altronde nell’approccio “originale” all’evento “concerto”: sia lei che Carlo Boccadoro intervenite sempre durante i concerti a presentare direttamente le opere in programma, in modo da cercare anche un contatto più diretto con un pubblico, evidentemente molto affezionato…

Questa abitudine deriva dalla nostra esperienza radiofonica, che abbiamo cercato di portare in concerto. Nel periodo in cui eravamo a Radio Popolare, a metà degli anni ‘90, avevamo l’abitudine di fare presentazioni molto brevi, informali cercando di mettere a proprio agio i nostri ascoltatori. A nostra avviso, infatti, non esiste musica troppo difficile, ma esistono invece ascoltatori con più o meno pregiudizi. Il nostro proposito è sempre stato quello di liberarli da tali preconcetti, e di fornire loro una sorta di mappa, per orientarsi nell’ascolto. La libertà dai pregiudizi può, a mio avviso, favorire un ascolto sereno: quindi anche una musica, di primo acchito un po’ ostica proprio per quei processi compositivi complessi che la caratterizzano, diviene più semplice da approcciare.

Fin dal primo concerto, nel 1997, abbiamo usato le presentazioni anche nel tentativo di disarticolare la forma “concerto” tradizionale.

In questa prospettiva nel 2007, nel corso della stagione dedicata al tema del diritto, abbiamo osato ancora di più. In ogni concerto, abbiamo sostituito gli intervalli con piccoli incontri fra persone, non specificamente provenienti dal campo musicale, per affrontare tale tema, considerato nei suoi molteplici aspetti: si è parlato infatti di diritto alla cittadinanza, alla libera espressione, al lavoro, e così via.

Abbiamo fatto anche altre esperienze di questo tipo, evitando però la serializzazione, e quindi di cadere nel cliché. Il nostro intento rimane quindi quello di disarticolare la forma concerto e far sì che le nostre serate rappresentino un modo di fruire della musica contemporanea diverso dalla ritualità concertistica. Una ritualità del resto ottocentesca, che non ha probabilmente più ragion d’essere oggi, non può essere adattata alla musica di oggi.

In questo rapporto con il pubblico e con la creazione emerge anche una forma di impegno sociale: l’attenzione nei confronti della contemporaneità vi ha portato a prenderne in considerazione i molteplici aspetti. Molto interessanti e anche piuttosto “forti” sono stati i fili conduttori che hanno caratterizzato le precedenti stagioni: Conflitti (2008), il già citato Diritto di… (2007), Il femminile (2006) …

Quello sul femminile in particolare, è stato un bellissimo percorso. C’eravamo resi conto che statisticamente il numero delle compositrici del nostro tempo, interessanti e attive, è infinitamente superiore rispetto a quello delle compositrici nella storia. Ci siamo dati naturalmente una risposta molto semplice da un punto di vista prettamente sociale: il superamento di mille convenzioni e pregiudizi ha permesso alle donne di avvicinarsi più facilmente al mondo della musica e della composizione, e accedere al lavoro di compositore.

Ci siamo però interrogati anche sull’esistenza o meno di uno specifico femminile nella creatività musicale. Così, analizzando e percorrendo i sentieri di compositrici molto diverse tra loro –Julia Wolfe, Galina Ustvolskaya, Isidora Zebeljan, ecc. – abbiamo provato a indagare tale dimensione, e cercare un modo di raccontarla attraverso i nostri concerti. Al tempo stesso ci siamo interrogati sulla presenza di uno specifico femminile nell’attività, nel lavoro stesso di compositori uomini.

Abbiamo anche affrontato il percorso di una compositrice molto interessante, Elena Kats-Chernin, nata in Uzbekistan, ma che vive in Australia, e il lavoro di una giovanissima compositrice greca, Christina Athinodorou.

È una stagione a cui sono davvero molto affezionato.

Dopo l’interesse suscitato dalle stagioni precedenti, così ricche spunti di discussione, e la “leggerezza” nell’accezione calviniana delle Lezioni Americane, ci può lasciare invece qualche anticipazione circa la rassegna del prossimo anno?

Purtroppo il nostro lavoro è sempre immerso in una grande nuvola di incertezza, la stessa incertezza che vive ogni associazione culturale, ogni realtà che tenta di produrre cultura, soprattutto in questo paese e in questo periodo storico. Viviamo infatti in una realtà di finanziamenti pubblici così drammatica, grave e urgente, da non permetterci di affermare con certezza cosa faremo in futuro.

Posso però dire che, per il 2011, ci piacerebbe affrontare un discorso sull’Europa. Dopo esserci concentrati sugli Stati Uniti, vorremmo cercare di presentare una sorta di mappa della creatività musicale europea attuale, individuando così i centri di irradiazione e di sviluppo dei linguaggi, e soprattutto cercando di rivelare come una generazione, alla quale apparteniamo anche noi, ha reagito all’influenza proveniente dall’America.

Purtroppo però i problemi da affrontare sono veramente tanti: potremmo riempire pagine e pagine circa i nostri desideri, ma è veramente difficile dire cosa riusciremo a realizzare.

Posso però dire che, sicuramente, alla fine del 2010 uscirà un disco che ci accompagnerà poi nel 2011, come mappatura e approfondimento della realtà musicale italiana. Si tratta di un progetto un po’ particolare, poiché parte dai brani di Berio e Donatoni, cui fanno seguito opere di altri musicisti in qualche modo “eretici” nei confronti di queste due grandi personalità del Novecento italiano  (e in particolare di Donatoni).

Ne emerge una situazione curiosa: è infatti interessante osservare come ogni “eresia” porti in sé molto dell’insegnamento dei maestri. Il paradosso è che le conseguenze dell’attività creativa di autori come Berio e Donatoni sono oggi  molto più evidenti in compositori come me, Carlo Boccadoro, Francesco Antonioli, senza un rapporto di diretta filiazione con queste grandi personalità. E alla fine sopravvive molto di più del loro lavoro nel nostro modo di fare musica, di quanto non accada nell’opera dei loro effettivi allievi.