Vonneumann ‘Il Dè Metallo’


(Ebria Records/Ammiratore Omonimo 2009)

Da “L’invariante”, son trascorsi nove anni e “Il
Dè Metallo” è il numero cinque della catena (più
granaglie varie sparse in giro).
Gli anni passan e non son pochi,
ma Vonneumann son dei grandi paraculi, poiché han
capito bene come prendere per il naso il concetto tempo.
Ora,
avvolto in una copertina floreale, bellissima e metaforicamente
carnale, le sette tracce attuali son elastico teso immediatamente
rilasciato, all’infinito e sempre sul nostro naso.
Vonneumann,
d’altronde, hanno nome (le quattro enne, croce e delizia del
recensore disattento, quanto di quello attento…), che spesso e
volentieri perde pezzi da tutte le parti, riconfigurandosi ogni
volta quasi come nuova band.
E nei vuoti che contrastano i pieni
(ariosi, lirici e struggenti…) alberga l’incanto della loro
arte.
Imparano e dimenticano, ad una velocità elevatissima,
e nel mezzo del processo accade questo, le frasi armoniche
fluttuano, le ritmiche s’interrompono per lasciar spazio ad una
riflessione, s’invita un amico (il buon Alessandro Calbucci)
e poi si va al pub.
Ed ecco che le formule generiche di
presentazione di noi scribacchini collassano su se stesse.
Pensi
di averli acchiappati per la coda, ed invece, con imbarazzo, ti
accorgi che proprio di coda non si tratta quello che stringi fra le
mani, allora arrossisci, chiedi scusa, e t’impegni ad ascoltarlo
attentamente.
Ma l’approccio può rivelarsi non
corretto.
Poiché, Vonneumann, funziona bene, sia al chiuso,
sia all’aperto (con particolare predilezione per le giornate assolate
e ventose).
Funziona ad alto e basso volume, distesi od in piedi
e dal vivo spaccano (non perdeteli se vi capita occasione…).
Che
poi il termine impro venga appiccicato a tutto ciò, è
faccenda di poco conto.
In quanto Vonneumann se interrogati
rispondono a modo e chiaramente, ma, con gli strumenti in mano son
maestri nell’arte del depistaggio.
Lo chiamiamo impro rock per
comodità.
Che poi s’intravedano al suo interno filamenti
folk, bagliori blues, contrappunti rimuginanti, fra quartetto da
camera svaccato e spunti lisergici antichi e preziosi negli intarsi
di corde è tutto giusto e tutto vero.
Omniittico
apre e Methagno Sahgno chiude, e se imposti il lettore in
modalità infinite repeat, ti accorgerai che il cerchio
è perfettamente armonico.
Si, i Vonneumann possiedono testo
e sottotesto e fanno impro/art/free/rock metaforico.
E di nuovo
ci si ritrova con un pugno di mosche in mano a dire: penso,
credo…
Ma sempre fuori asse siamo.
La loro realtà, è
più bella di quel che riesco a descrivere (ed anche più
stimolante).
E mi piace pensare che esista un fil rouge ad unire
queste note (idealmente) a quelle degli Squirrel Bait, Slint,
Bastro, ciuffi Velvet (quelli veri, facciamo a
capirci…), gli zig e gli zag di John Cipollina, Gary
Duncan
, Tom Verlaine e Richard Lloyd, gli Henry
Cow
(sentiti ma non rifatti…) Dean Roberts ed Ekkhard
Ellers
.
Melodie istantanee che si sciolgono al tepore
dell’altra metà del letto immersa nella penombra.
Ringrazi
infinitamente quell’avvallamento amoroso e Bof, Fr, Dj
e T.
Nei silenzi/presagio la ricerca di una forma
canzone che resta francamente inesplicabile.
Ed io mi ci son
perso ringraziando ossequiosamente.

Voto: 8

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