Manuel Zurria ‘Repeat’


(Die Schachtel 2008)

Constatando un curriculum gremito da avvincenti evasioni con il gotha della contemporanea (progetti intagliati tet a tet con Salvatore Sciarrino, l’impegno costante negli Alter Ego e relazioni orientate tra vecchie certezze, Gavin Bryars, e vive utopie, Philip Jeck e Scanner), appare assolutamente lacunosa e criminale la quasi che totale assenza di materiale discografico sull’opera individuale di Manuel Zurria: compositore, flautista e anima libera trapelata finalmente ai quattro venti grazie a questo triplo­-cd concettuale per Die Schachtel contenente il «diario di un’ossessione» scritto dal nostro per quasi un lustro, studiando e contemplando la fenomenologia della ripetizione a contatto con l’habitat sonoro. Il testo di Gilles Deleuze, “Difference and Repetition”, con la visione de “Il Muro” di Alighiero Boetti (per Manuel, tra le opere più interiori dell’artista concettuale italiano, disposta sulla parete della casa romana come un interminabile work in progress-finestra sul proprio mondo) raffigurano i due fattori scatenanti della ricerca: «In un certo senso la lettura di Deleuze mi ha dato la possibilità di mettere a fuoco l’importanza della ripetizione come fatto percettivo e come esperienza dell’ascolto per accumulazione, ma allo stesso tempo di pensare alla ripetizione come differenza, come fatto minimo, come trance»
La trance ottenuta dai suoni reiterati, l’idea di mutamento percepita in prima istanza dal fruitore, ipotesi che amalgamate condurranno spontaneamente Zurria allo schema conclusivo: collezionare e interpretare un vistoso archivio di composizioni altrui scelte dopo continui ripensamenti, senza inibizioni nel mescolare in modo eccellente estetiche tre esse anche disarmoniche.
In “Repeat” si attuano «piccole varianti» identificate dal compositore come «delle ripetizioni mal riuscite dell’originale, dei cloni-sporchi che distorcono vagamente il punto focale dell’idea originaria senza peraltro snaturarne il senso».
Le scelte di Zurria abbracciano indistintamente la tradizione moderna europea (il magiaro Lászlo Sáry, la fredda Estonia di Arvo Pärt, la mano cinematica di Luc Ferrari, l’olandese Louis Andriessen, i nostri Aldo Clementi e Stefano Scodanibbio) quanto la colta e sperimentale d’oltreoceano (i seminali Cage e Feldman, Alvin Lucier e Tom Johnson), e fatta eccezione per un paio di contributi (i clavicembali di Maria Grazia Bellia e Salvatore Cerchialo a turno nella gentile Spiegel Im Spiegel di Pärt e Walking Song di Kevin Volans) il compositore indossa creativamente i panni del multistrumentista, navigando solo e accostando al flauto (di per sé variato fra normale, basso, amplificato ed esposto a complesse fasi di sovraincisione) le percussioni, gli oggetti, le bottiglie e dei sintetizzatori.
Essendo una vera e propria vagonata di materiale risulta arduo un approccio filologico che scandagli maniacalmente ogni singolo interstizio, e nel contempo, ne risentirebbe il piglio in ogni caso individualista assunto dall’autore e da queste ‘trascrizioni’.
Eccellente e raro.

Voto: 10

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