Marina Hardy ‘Pink Violin’

(Eh? Records 2008)

Multistrumentista per passione, la Hardy si ‘inzozza’ le mani con una quantità di strumenti illimitata e sovrumana: corde, percussioni, fiati, synth, violino, particelle elettroniche e altro ancora. Da questo punto di partenza, poi, ricava davvero di tutto: venticelli di klezmer e richiami balcanici che convivono con sfuriate di metallo pesante alla chitarra (Cowgypsy e il surf-metal Zoom, moderno pensiero sulla potenza di un Malmsteen alla sei corde); sbuffi immortali di etno-ambient (la space-drone Apple Sauce Pudding può competere con i cavalli di battaglia di Steve Roach con Vidna Obmana e anche Jorge Reyes); elettro-acusticherie etichettate nu-jazz (la progettazione matematico/cibernetica a scalare di Trummpet). Ma anche marcette easy-listening e popolari dove galleggiano riferimenti altrettanto misti: ovvio calore spagnoleggiante per una sfrontata Spanish, exotica sixties e swing da organo ben caldo in Yowsa, tradizione classica del XX° secolo nella ri-scrittura di If Ain’t Necessarily So firmata George Gershwin. La Hardy, al contempo, sa essere straziante e riflessiva: il pianto contemporaneo del solo violino di Ceisel e il mood minimale e stridente procurato da un (fittizio) ensemble accademico in Nnow parlano il linguaggio della complessità e dell’asprezza.
Pieni voti alla performer di Omaha, cara all’entourage sperimentale di Brian Day e soci. Un certo John Zorn ne andrebbe matto.

Voto: 9

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