Oren Ambarchi and Z’ev ‘Spirits Transform Me’

(Tzadik 2008)

Alef, Bet, Gimel: le lettere capostipiti dell’alfabeto ebraico. Anticamente e spiritualmente, la prima ‘ravvisa’ la figura di Dio: uno, unico, eterno; la seguente, benedizione e creazione, dualità e pluralità; la terza, innalzata a raffigurare il senso di compimento, la vetta: l’approdo finale dell’individuo (della carne, della materia) alle mistiche vie dell’Altissimo…
Lo studio degli antichi caratteri ebraici, la cabala e altre pratiche esoteriche assoggettano – quasi – da sempre gli interessi più terreni del vecchio Z’ev: le percussioni, la composizione, i suoni arcigni e post-industriali. Misticismo e sperimentazione percussiva, trait d’union che Mr Weisser imprime alle sue opere dai tempi del cambio d’identità: quando decise di ribattezzarsi artisticamente con il moniker di Sh’aul Z’ev bn Yakov bn Moshe bn Sha’ul, un nome-speciale israelita ‘donato’ dai genitori in tenera età.
La trasformazione e l’analisi dei significati celati nei primi tre componenti dell’Alef-ebraico, danno corpo al leit-motiv di quest’incontro, realizzato con lo scambio a distanza dei files; Ambarchi spedisce via sharing, presso la residenza londinese del collega, samples concepiti con chitarra, viola, vibrafono e tubular bells, abbandonandoli all’amalgama e alla completezza delle percussioni di Z’ev. A quest’ultimo, molti attribuiscono la piena responsabilità di “Spirits Transform Me”, ma sviando sul parere del sottoscritto, persino le più accreditate note zorniane sul cd, lo descrivono quasi come fosse solo un collaboratore-esterno ad un nuovo progetto di Oren.
Non è difficile, difatti, inalare l’aria dei lavori più freschi dell’australiano per Touch (“In The Pendulum’s Embrace”, il 7’’ pollici ”Destinationless Desire”) nel mescolamento di Alef: brulichii metallici che, crescendo, divengono uno strambo muro-di-suono, vacillante… fluttuante. Il tutto, scalfito da una congrega di irregolari overdubbings, a sentore, attinti dalla percussione di una sei corde in orizzontale. E’ come quando ci si deve (ri)abituare ad un’estenuante sforzo fisico, dopo tanto tempo di stasi motoria (e mentale). I muscoli, la forza, la fatica saranno più pesanti da sopperire prima di sciogliersi e prendere il via. Metafora perfetta per Bet, vigorosa presa di tumultuoso, sconquassante, tribale movimento, sparato dopo la trance–ambient precedente. I nostri si scaldano, ed è specialmente Z’ev a lasciare lo zampino dietro le claustrofobiche folate di metallo, rimbombante e grezzo. Un circuito schematico studiato nei dettagli, con piglio matematico, instaurando la seguente formula: calma-temperamento-catarsi completa. Solo così si può semplificare e spiegare il ritorno al principio del buio, ripiombato con la (lettera) finale Gimel. Inquietanti scampanellii, battiti ripetuti lentamente (proprio come ad un funerale) tra granitici subwoofer. A forza di coltivare esperienze con i Sunn O))), Ambarchi è diventato un esperto di gelido-doom; a Z’ev, invece, il classico retaggio industrial e il merito di aver influenzato con le sue ricerche mistiche l’incipit di partenza.

Voto: 8

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