Frédéric Blondy, Thomas Lehn ‘obdo’


(Another Timbre 2008)

Lo so, forse si tratta di un paragone tirato lì alla meno peggio, ma a volte, da ex appassionato di fumetti, tutte le combinazioni di musicisti impro che si susseguono nei vari progetti musicali, mi fanno un po’ pensare a quegli incontri-scontri, crossover e robe varie che infestano il mondo delle nuvole parlanti, specie in ambito super eroi. E come lì, a volte ci sono delle accoppiate che dicono poco o nulla, ripetendo stanche routines, a volte combinazioni che fanno piccoli miracoli. “obdo” ricade nell’ultima categoria. Una coppia insolita, il pianista Frédéric Blondy, e il (forse) più noto Thomas Lehn al sintetizzatore analogico. Registrato dal vivo, ma sottoposto a qualche leggera forma di post-produzione, in varie locations francesi, il cd consta di sole due traccie, pooq e obdo, e si basa su un particolare stratagemma esecutivo utilizzato dai due: il suono del piano del piano viene dato in pasto al sintetizzatore per essere manipolato e trasformato in tempo reale attraverso l’applicazione di una serie di filtri di riverbero, ring modulation, ecc. A complicare ulteriormente le cose, il segnale audio del piano viene anche usato come controllo, più o meno…controllato, della stessa attività di sintesi audio. Processo, ma non fine a se stesso, poiché i risultati sono notevolissimi, al punto che considero questo cd l’apice dell’attuale produzione della label Another Timbre e del buon gusto del suo fondatore Simon Reynell. Il procedere è spettacolarmente spettrale, in gran parte quieto ma impregnato di un notevole senso del dramma, di nervosismo latente, di senso del pericolo, di quella sensazione d’incertezza che non sai cosa si agita dietro l’angolo. Potendo consiglio di ascoltarlo nel buio più totale, complice l’ottima registrazione, che conferisce ad ogni suono, ad ogni gesto, una forza dirompente, l’oscurità è il luogo più adatto per mettere in scena gli abbagli mentali e le escoriazioni psicologiche di questa musica che inganna, soggioga, evoca spettri, provoca improvvise e profonde ferite.
Suoni desolati e striduli, probabilmente le corde manipolate del piano, introducono il primo pezzo, a cui si aggiunge il pulsare minaccioso e gli effetti stranianti di Lehn. Qualche istante di permanenza in una tremolante zona grigia e dopo è tutto un alternarsi tra le escursioni pianistiche del francese, un nutrito vocabolario di extended techniques, accenni di grappoli di note quasi Feldmaniane, rovinose e dissonanti cadute, insistenti puntellamenti, e il mirabile lavorio al sintetizzatore, che misurato proietta lunghe e cangianti ombre.
Ottimo, ma il meglio deve ancora venire con la lunga title track. Qui va in scena uno straniante gioco di specchi, dove tutto è indefinito, mutevole, dove strane forme di vita sembrano come materializzarsi dal nulla, prima discrete, poi rumorose ed invadenti, quasi a reclamare spazio vitale. Il sintetizzatore, si agita irrequieto, crea ostacoli e piazza trappole, mentre il piano, assolutamente non normalizzato, sembra quasi una presenza fisica intenta a smontare e rimontare ogni cosa, salvo concedersi qualche tremante escursione meditabonda. Ci sono attimi in cui la tensione raggiunge livelli parossistici, prossimi al collasso; saturazione di nervi ed emozioni che trova la sua valvola di sfogo negli ultimi istanti del brano. Un folle e dolorosissimo precipitare verso il vuoto che inghiotte e distrugge tutto, lasciando completamente ammutoliti. Spettacolare.

Voto: 9

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