(Accretions 2007)
Si presenta subito con la faccia da
pazzo in copertina: un misto tra Richard James (era Come To
Daddy) e Gene Simmons, con tanto di linguaccia. Immagine
che sembra fare a pugni con il curriculum di Hans
Fjellestad, fatto di rigorosi studi di composizione,
improvvisazione e piano classico, collaborazioni ad ampio raggio (da
Lé Quan Ninh a Miya Masaoka, passando per i
leggendari Muhal Richard Abrams e Peter Kowald), lezioni tenute in alcune
delle Univeristà più progressiste, organizzazioni di
festivals, tutta una serie di progetti audio-video, presentati in
luoghi prestigiosissimi quali il London Musician Collective e
la Queen Elizabeth Hall, per finire con la sua attività
di filmaker. Riguardo quest’ultima, sembra essere abbastanza noto e
lodato il documentario Moog, ovviamente dedicato all’inventore
dell’omonimo sintetizzatore (un altro dovrebbe essere in arrivo con
il titolo di Synth God). Un bel po’ di roba, e mi sono molto
limitato nelle citazioni, non c’è che dire. Sempre al
sintetizzatore analogico, ma anche al Theremin, è
dedicato questo cd, che sviscera in maniera parossistica le
possibilità dello strumento. Un vero e proprio rimestarne tra
le interiora, alla ricerca di suoni nascosti in qualche
pertugio. Suoni belli e brutti in equal misura, perché
Fjellestad sembra poco propenso a darsi una qualche disciplina, e
mette da parte buone maniere e buon senso. Il che tradotto significa
che non mancano cose interessanti, ma che c’è anche tanto
cazzeggio in libera uscita, che spesso sembra privilegiare il
sensazionalismo alla forma. A tratti una sorta di carnevale del
bizzarro, nel quale sfilano rimandi deformi alla cosmologia krauta,
ipotesi schizzate di free jazz, mostruosità progressive, noise splatter,
industrialismi ed elettronica onnivora. S’inizia con il ribollire di
Pull Breath, il synth che
squarcia l’aria con fare impietoso, e a seguire una tempesta di suoni
urticanti e strambi, autentiche mine acustiche vaganti, che
scricchiolano ed esplodono dove capita. Fa quasi male, provoca un
senso di vertigine e nausea, oltre a massaggiare la prostata, l’allungarsi e
riavvolgersi di quel serpente di suono che caratterizza Crush
Goddess. Ma è con Calle
Calla che vengono alla luce i
risvolti più deleteri di questo disco: una serie di strilli,
sibili, escoriazioni, francamente mal digeribili, che non sembrano
avere altro scopo se non quello di stupire con quanto di più
disturbante sia possibile concepire. Stranamente si ci imbatte in
attimi più pacanti in Ex Vivo,
note pianistiche che si spezzano nel tratteggiare una melodia sfumata
ed intrisa di un sottile senso dello spleen. Interessante Love
Dart, prima un fiorire di power
electronics, e poi un pulsare
misterioso e subacqueo che toglie realmente il respiro, a scandire
momenti inquietanti e psicotici. Nel corso di questo brano ho la
sensazione che qualche assurda declamazione da parte di Genesis P.
Orridge, o come cavolo si chiama adesso, non ci starebbe affatto
male. Rumore, follia, istrionismo, suoni da b-movie di fantascienza,
qualche banalità, nel resto del disco.
Voto: 6
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