Pearl Jam ‘Live at PalaIsozaki-Torino 19/09/2006’


Che dir se ne voglia…la vera grande rock band è questa!!!

Di Mauro Nigro

emmenne76@tele2.it

 

Indubbiamente questo è un concerto a cui tenevo tanto, quindi la mia obiettività sarà ridotta al minimo. Però è anche vero che di concerti ne ho visti tanti. Quindi quello che sto per dire ha una sua ferrea verità. Il concerto di Torino appena trascorso è stata una cosa simile ad un’esperienza mistica. A dire il vero, ritenevo di andare a vedere quest’avvenimento più per motivi affettivi che per entusiasmo vero e proprio. Certo il nuovo album omonimo era un presupposto, a differenza di ciò che gli “esperti” possono dire, più che entusiasmante. Ma ritenevo difficile che dal vivo questi cinque, più uno, ormai signori di Seattle potessero galvanizzarsi ancora più di tanto. Invece è stato tutto il contrario di ciò che di negativo possa venire in mente ad un deficiente come me. Quello di Torino è stato un concerto estremamente strano, particolare ed  emozionante. Innanzitutto per il gruppo spalla, i My Morning Jacket, gruppo del Kentucky che promette benissimo. Che comunque sin dal look appare come atipico. Cinque tizi che sembrano essersi incontrati ed essere saliti sul palco per caso, assolutamente eterogenei fra loro. Sono comunque un buon gruppo. Ottimi suoni, un po’ meno la composizione e gli arrangiamenti. Pressoché perfetti nelle code finali dei pezzi, peccano nella fase principale dei brani, che ricordano un po’ di tutto, dai Pink Floyd ai Led Zeppelin ai Radiohead ai Pearl Jam stessi. Salgono sul palco puntualissimi (altro che i gruppi italiani) e suonano davanti ad un palazzetto ancora semivuoto, senza però risparmiarsi minimamente. Tanto che all’ultimo brano Vedder decide di rendergli omaggio, salendo a suonare con loro un pezzo degli Who, ed infiammando il PalaIsozaki in via di riempimento. Le giacchette mattutine escono fra i tiepidi appalausi del pubblico. Si cambia il palco e dopo un po’, altrettanto puntuali, alle 21 salgono sul palco i Pearl Jam. E già comincia la palpitazione. Sono a soli 15 metri da una delle icone dei miei 16 anni. Sono di fronte ad un gruppo che all’epoca, tempi diversi allora per me e per il mondo, potevo solo sognare di vedere dal vivo. Soli 15 metri. All’improvviso un muro di suono mi colpisce in faccia ed allo stomaco. I PJ sono in una forma distruttiva, Vedder ha la sua voce dei vent’anni e lo chiarisce subito. Si parte con un quartetto degno delle valvole del miglior ampli!!! Go, Corduroy, Animal ed Elderly Woman. Sono ipnotizzato da Mike McCready, che sembra più giovane oggi che 5 anni fa. Pare rinato. Ad un tratto la bolgia si ferma e Mr. Eddie, con un italiano degno del napoletano di Pippo Kennedy, ringrazia l’Italia, si prostra per la lunga e non colpevole assenza, e promette scintille  (chiedendo però, memori dei mortali avvenimenti passati, di non pogare sotto il palco…ma la gente se ne fotte..e li capisco pure un po’..). Fin qui tutto nella norma. Poi Vedder aggiunge che la scaletta della serata sarà un po’ particolare, un esperimento lo definisce il cantante. E lo è!!! Dal pezzo successivo in poi i vecchietti americani fanno tutto, ma TUTTO TUTTO, il nuovo disco, e NELL’ESATTA SEQUENZA DELLA TRACK LIST. Sarà che è bello sentire tutti i pezzi nuovi, sarà la particolarità del tutto, ma è bellissimo!!! E come tirano i pezzi nuovi dal vivo. Life Wasted è semplicemente devastante, ma quello che rimane addosso più di tutti è, esattamente come nel disco, Marker In The Sand. Almeno fra i pezzi movimentati. Ma anche pezzi come Parachutes, un po’ fiacchi sul disco, acquistano spessore. Fanno addirittura Wasted Reprise!!! Naturalmente stupende Come Back ed Inside Job. Insomma, siamo all’ora e quaranta minuti già così. Un concerto normale potrebbe anche finire. E la paura sottile che sia così si insinua in chi, come me, li vede per la prima volta. Finito il disco nuovo Ament e compagni attaccano con due proiettili come Do The Evolution e Rearviewmirror. Il palazzetto esplode di nuovo!! È una bolgia. Non posso esimermi dal pogare gridando all’evoluzione e successivamente all’emancipazione. È devastante. E la cosa più bella che questi due pezzi sono solo il preambolo al primo bis.Gossard e soci sembrano già entusiasti dell’accoglienza del pubblico ai nuovi pezzi, forse inaspettata. Rientrano, e dopo due o tre messaggi di contentezza e di gradimento ricominciano. E qui passato e presente perdono di significato. Jeremy confonde la rabbia, Luckin l’alimenta, Better Man ci coinvolge tutti fino alla vera apoteosi del concerto. Prevedibile, scontata, ma vera. Black. Una versione di undici minuti almeno, trascinata più dal pubblico che dal gruppo, con gente dai 15 ai 45 anni in lacrime trattenute a stento. Ma non lacrime isteriche. Lacrime di condivisione, date dalla sensazione di essere tutti simili e diversi. Anche i PJ paiono avvertire tutto questo, e mentre i 12.000 presenti battono le mani all’unisono facendo il coretto finale, Gossard, Vedder, Ament, Cameron (che si alza in piedi) e McCready guardano stupiti e commossi lo spettacolo che gli si para davanti. Il neo acquisto Boom Caspar ha addirittura la bocca penzoloni. Un attimo, per modo di dire, di respiro con circa 3 minuti di applausi continui e sti tizi ti sorprendono con Tremor Christ, che forse non facevano dal vivo dal tour di pubblicazione. Eppoi arriva Alive. Evito di ripetere le scene precedenti che tanto è uguale se non peggio. Potremmo finirla qui. Ed invece no! Riescono, Vedder bofonchia qualcosa, ormai completamente ubriaco per aver bevuto vino tutta la sera (come al solito..), su quanto siamo speciali ed unici, e via che si riprende. Con due pezzi leggeri leggeri come Blood ed Even Flow, giusto per non distruggersi la voce. E siamo davvero alla fine. Si accendono le luci del palazzetto, ed i PJ attaccano Baba O’Riley degli Who, con un tripudio dagli spalti. Pare che quelli del palazzotto di Torino se ne vogliano andare a casa, ma Vedder, che nel mentre indossa un’argentata maschera alla Rey Mysterio, non ci sta. E si chiude, davvero stavolta, con una bellissima Indifference, cantata all’unisono col pubblico che batte le mani sulla coda finale fino a spellarsele. Così come negli applausi successivi. I Pearl Jam restano un minuto buono sul palco a ringraziare ed a godersi il tutto. Poi vanno via. Tante canzoni vecchie che avrei voluto non ho sentito. Ma non importa, non importa davvero. Non importa quel che pensano gli altri. Importa quel che ho provato. Ed ho percepito che sono i migliori ancora oggi. Con buona pace dei ragazzetti che s’intendono star, degli esperti che li danno per finiti, e degli artisti intellettuali che non sanno sudare.