Erik Hinds ‘Reign In Blood’

(Solponticello, 2005)

‘Reign In Blood’ degli Slayer, sicuramente il più grande disco di heavy metal di sempre, nonché uno dei piú grandi della musica rock in generale: perfetto nella ferocia dell’esecuzione tecnica, infame nella disumanità dei testi, iconoclasta nel polverizzare gli stilemi abusati e spesso ridicoli della musica pesante sino ad allora esistente. Un’opera giustamente entrata a pieno titolo nella mitologia rock, e forse uno dei vinili più ascoltati e materialmente abusati da parte del sottoscritto, come pure, a quante pare, da parte di Erik Hinds, musicista di Athens e titolare della label Solponticello, che ha deciso di coverizzare l’intero album. Pura follia si sarebbe portati a pensare, impossibile poter riprodurre musiche che quasi trascendono la dimensione dell’umano. Beh, forse, dipende da cosa s’intende per cover e come s’intende realizzarla. Il punto è che Erik non è un qualunque musicista coglioncello e metallaro, ma opera in un territorio che potremmo definire avant-folk, e suona, qui in perfetta solitudine, un bizzarro strumento a corde chiamato Harpeggione, simile nei suoni ad una insolita mistura tra contrabbasso e sitar. Date simili premesse, facile pensare ad una sorta di scherzo, un rileggere ‘Reign In Blood’ in chiave dissacratoria, mentre niente potrebbe essere più falso. Nata quasi come una sorta di sfida tra Erik e un suo amico, questa è un’opera serissima, concettualmente rispettosa dell’originale, giacchè ne conserva lo spirito primigenio, ma al tempo stesso diventa oggetto sonoro completamente autonomo, meritevole d’ascolto per se, grazie ad un’intelligente, mai banale, ma oggettivamente profonda e radicale trasfigurazione del materiale in input. Il risultato finale ammalia non poco e ha fatto sì che il mio lettore cd sia ormai in repeat da un paio di giorni. Affascinano la qualità fisica dell’interazione tra Erik e il suo strumento sfruttandone tutta la gamma di suoni, anche quelli derivanti dalla percussione del corpo, l’impeto passionale e, perché no, gioioso dell’esecuzione, lo spettacolo di assistere alla mutazione del death metal Slayeriano utilizzando mezzi espressivi così distanti. A ciò ovviamente si aggiunge il giochino di cercare le associazioni con i brani così come pensati dagli Slayer, cosa a volte (relativamente) facile come in Reborn (esecuzione asciuttissima, straordinaria nel suo costringere ancora una volta a trattenere il fiato), Raining Blood (l’incanto orrorifico dell’intro) e Postmortem, altre un po’ meno. È in questi ultimi casi che i risultati sono ancora più meritevoli, con il materiale originale usato semplicemente come pretesto psicologico. Esemplari in tal senso la resa di Angel Of Death, costipata e tesa nell’esecuzione, illuminata da squarci quasi orientaleggianti, ma che non rinuncia a riprendere il famosissimo rifferama della coppia Kerry King/ Jeff Hanneman. Notevoli anche l’escursione microtonale e cacofonica di Criminally Insane, perfetta nel rigenerare l’asfissia dell’originale e l’irriconoscibile Epidemic, divenuta un lento incanto d’arpeggi carichi di oscuri presagi. Uno dei dischi più freschi e originali degli ultimi tempi.

Voto: 8

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