Dave Alvin ‘Public Domain’

Dave Alvin è un personaggio che non ha bisogno di presentazioni. Io penso che chiunque ami la musica non può non considerare Dave Alvin un musicista a 360 gradi, uno dove in ogni suo nuovo album ha aggiunto sempre qualcosa in più alla sua pur grande conoscenza musicale, tanto che dai magnifici The Blasters ad oggi si può benissimo dire che tutto il movimento roots-americana trova in lui il massimo esponente, colui che ha contribuito in maniera definitiva a consolidare un genere fino a poco tempo fa di nicchia e marginale. A detta dello stesso Alvin “Public Domain” chiude la trilogia dei cosiddetti “suoni dell’America” cominciata con “King of California”, proseguita poi dallo splendido “Blackjack David” e finita con questo attuale, che devo dire è per il genere quanto di meglio si possa trovare in giro per suoni, completezza ed ispirazione. Infatti Dave pesca a piene mani nella più pura tradizione Folk americana d’inizio secolo e anche più indietro, interpretando alla meglio le paure, le ansie, le speranze dei primi pionieri, reinterpretando sembra incredibile, tutti brani dell’epoca: dei traditional insomma, riarrangiandoli personalmente seguendo il proprio gusto e facendoli quindi di conseguenza uscire dall’ambito strettamente folk, rendendoli immediatamente fruibili a tutti in un risultato finale che definire esaltante è sicuramente poco. Ascoltiamoci ad esempio l’iniziale Shenandoah, un brano che risale addirittura all’epoca secessionista, qui Dave la trasforma e la rallenta rendendola possente ed epica dove Rock e Blues si fondono alla perfezione. In Don’t Let Your Deal Go Now e East Virginia Blues viene rispolverato alla grande il tanto caro Blasters-sound in un’amalgama che fa scintille. Mentre per What Did The Deep Sea Say ed Engine 143 viene ripresa con grande partecipazione da parte dell’autore la ballata alla Woody Guthrie, a lui tanto caro, e in Murder of the Lawson Family si raggiunge la perfezione, un capolavoro assoluto, che visto il tema trattato (un omicidio) Dave la esegue con un’intensità e drammaticità da pelle d’oca. Stupenda anche la “ghost-track” finale: uno strumentale con una chitarra acustica che sembra rubata a Leo Kottke per quanto il suono dello strumento è cristallino e pieno di fascino. Non vorrei inoltre dimenticare il violino di Brantley Kearns che è una presenza brillante in tutto il disco, oltre che alla voce dello stesso Kearns, che spesso si affianca a quella di Alvin. Tutto il disco comunque “viaggia” a livelli altissimi ed i brani sopra citati sono solo alcuni esempi di un lavoro che è grandissimo, sentito ed ispirato come raramente ci capita di trovare. Grazie Dave.

Voto: 10

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Autore: letitrock@tiscali.it