Diego Giachetti ‘L’autunno caldo’

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   Di Silvia Casilio

silviacasilio@hotmail.com

Ecco qua ci risiamo: Diego Giachetti l’ha fatto ancora. Di nuovo con questo bel libro, edito da Ediesse per la collana fondamenti, Giachetti con maestria, puntualità e rigore scientifico – il rigore scientifico tipico di chi sa di cosa sta parlando – ci prende per mano e ci conduce tra le pieghe e i risvolti di uno dei momenti più significativi della storia repubblicana italiana quello appunto balzato agli onori della cronaca e noto ai più come l’autunno caldo, ovvero la grande stagione di lotte del movimento operaio che caratterizzò tutto il 1969 e in particolare gli ultimi mesi di quell’anno. L’autore, che ha al suo attivo alcuni dei lavori più originali scritti negli ultimi anni sugli anni Sessanta e Settanta – solo a titolo di esempio ricordiamo Un sessantotto e tre conflitti. Classe, genere e generazione (2008), Venti dell’est. Il ’68 nei paesi del socialismo reale (2008), La FIAT in mano agli operai. L’ autunno caldo del 1969 con Marco Scavino (1999) –, senza mai dare per scontato nessun passaggio o episodio, ricostruisce con dovizia di particolari gli eventi e soprattutto restituisce al lettore il clima del periodo, un periodo carico di tensioni e conflittualità.

Con le fabbriche italiane e le strutture sindacali costrette a rivedere le strategie previste per il rinnovo dei contratti, i conflitti operai esplosero in un contesto contrassegnato da tensioni politiche crescenti e da un quadro istituzionale reso ancor più fragile dal fallimento dell’unificazione socialista – il PSU infatti si sciolse nel luglio del 1969 – dalla crisi del centro-sinistra e dalla nascita di un governo monocolore ancora una volta guidato da Mariano Rumor. Nel luglio del 1969, Eugenio Scalfari fotografava assai efficacemente il clima che si respirava nelle grandi città industriali del Nord, Torino e Milano in particolare, dove davanti ai cancelli delle fabbriche, nei capannoni gli operai erano in fermento: “la loro crisi verrà fra poco ed è già stata annunciata da violente scosse premonitrici […]. L’appuntamento è a ottobre, appena terminata la pausa estiva, ammesso che quest’anno una pausa estiva ci sia”.

Il 1969 fu caratterizzato, infatti, da una massiccia ripresa della conflittualità operaia dovuta alla spinta di contraddizioni e di esigenze maturate sui posti di lavoro, espressione di comportamenti e rivendicazioni avanzati da una nuova composizione della classe lavoratrice italiana. Sebbene non si possa separare rigidamente il 1968 e il 1969, semplificando si potrebbe comunque dire che se il primo fu, per dirla con Rossana Rossanda L’anno degli studenti, l’altro fu, senza alcun dubbio, l’anno degli operai: si trattò del più massiccio ciclo di scioperi mai registrato in Italia quanto a ore lavorative perse e del terzo in assoluto nella storia dopo lo sciopero generale del maggio francese e quello generale del 1926 in Gran Bretagna. Protagonisti assoluti della scena politica e sociale diventarono gli operai: il conflitto e il suo dilagare fu caratterizzato, soprattutto, dalla presenza nei cortei e nelle manifestazioni di giovani lavoratori comuni (p. 41 e ss.), privi peraltro di esperienze di militanza sindacale o di partito. Negli anni del secondo dopoguerra, si era registrato un aumento del numero degli operai comuni e dequalificati, provenienti soprattutto dalle aree depresse del meridione, e una conseguente diminuzione della manodopera specializzata. Ancora Eugenio Scalfari, riflettendo sulla situazione alla Fiat nel giugno del ’69, infatti, colse alcuni degli elementi di novità che Giachetti sottolinea e analizza nel suo lavoro:

 

Fin da prima di Natale la direzione della Fiat aveva capito che la lunga tregua coi suoi 140 mila operai […] stava per finire. Non c’era stato ancora nulla di concreto, ma era cambiata l’atmosfera. I superiori non venivano più considerati come personaggi dotati di un’autorità indiscussa, lavorare alla Fiat non sembrava più, com’era stato per tutto il decennio precedente, un privilegio economico e un preciso status sociale. gli operai discutevano con sempre maggiore frequenza delle loro condizioni di lavoro, anche all’interno degli stabilimenti, cosa mai verificatasi prima […]. Se ne erano accorti anche i sindacati e ne erano in parte galvanizzati, in parte preoccupati, perché il momento tanto atteso forse stava arrivando, ma stava arrivando quasi spontaneamente, quasi senza di loro. Circolavano parole d’ordine nuove; assemblee di fabbrica, delegati di reparto, parole che la direzione non aveva mai inteso pronunciare prima e che agli occhi degli ultimi “vallettiani” evocavano prospettive turbolente e inquietanti (La linea rossa di Mirafiori, in “L’Espresso”, 15 giugno 1969, p. 11).

Nel ciclo di lotte del ’69, quindi, è possibile rintracciare elementi di conflittualità generazionale (p. 27 e ss.): giovani erano gli occupanti delle università così come giovani erano gli studenti che distribuivano volantini davanti alle fabbriche; giovani erano anche gli operai che si fermavano a discutere con gli studenti e che partecipavano alle varie assemblee autonome “studenti-operai” così come giovani erano gli operai che sfilavano nei cortei scontrandosi spesso con la polizia. A questo si combinavano i problemi legati alla questione dell’immigrazione meridionale, che a partire dal 1967 aveva registrato un nuovo forte aumento, e quelli propri della conflittualità di classe, fondati su di una coscienza derivante dal rapporto con lavori, mansioni, ambienti dequalificati e degradati dall’introduzione della catena di montaggio e della grande produzione in serie.

Queste schiere di lavoratori meridionali riuscirono comunque a trovare un’occupazione: le grandi aziende del Nord, come la Fiat e la Pirelli, infatti, a causa della carenza di offerta di forza-lavoro autoctona, attinsero per la prima volta in maniera massiccia tra questi nuovi immigrati assumendone proprio tra il 1967 e il 1968 un numero significativo. Secondo Paul Gisborg è bene ricordare che l’aumento delle opportunità nel campo dell’istruzione non solo aveva accentuato la rigidità dell’offerta nel segmento industriale del mercato del lavoro ma aveva anche fatto sì che molti di coloro che entravano nelle fabbriche portassero con sé una migliore base di cultura generale e soprattutto una maggiore consapevolezza rispetto alle generazioni precedenti. Come ci ricorda Giachetti, i giovani, messi alla catena di montaggio, maturarono un atteggiamento critico verso il lavoro e la fabbrica, scontrandosi con la mentalità da “costruttori” e “produttori” tipica dei loro genitori (p. 30). Fu proprio sui giovani operai comuni che la nuova sinistra riuscì a far maggiormente breccia: ai “proletari immigrati”, avvezzi ai lavori pesanti ma non allo stress della catena di montaggio, i gruppi insegnarono che «tutti i gesti d’insubordinazione» possedevano un «contenuto altamente anticapitalistico», necessario a preparare la rivoluzione e la conseguente distruzione della società borghese. Pur nella diversità delle posizioni, i gruppi della sinistra extraparlamentare, Potere Operaio, l’Unione dei Comunisti Italiani, il Partito Comunista d’Italia ecc., unitisi sotto l’etichetta “operai-studenti” e abbandonate le vecchie parole d’ordine del tipo “potere studentesco”, erano riusciti a sfondare i cancelli delle fabbriche – alcuni riuscirono anche a farsi assumere – e ad entrare in contatto con gli operai scavalcando il sindacato e soprattutto i partiti tradizionali della sinistra. La propaganda della Nuova Sinistra, meno cauta di quella comunista, complicò anche il rapporto tra gli operai e le organizzazioni sindacali: alla conflittualità coordinata da queste ultime si aggiunse quella spontanea animata soprattutto da Comitati Unitari di Base (CUB), la cui nascita era stata sollecitata e stimolata proprio dalle forze della sinistra extraparlamentare presenti davanti ai cancelli delle grandi industrie del Nord (pp. 129-142). Detto questo non bisogna però dimenticare che i sindacati italiani mostrarono una notevole capacità di adattarsi alle mutate condizioni approfittando dell’attivismo operaio e ricavandosi, pur con notevoli difficoltà, una parziale autonomia rispetto ai partiti politici. A differenza dei partiti, infatti, la CGIL, la CISL e persino la UIL, anziché etichettare le nuove forme di lotta e le richieste avanzate dalla base come estremiste, seppero incanalarle in una strategia sindacale convergente e chiara, il cui obiettivo principale era costringere le forze di governo a realizzare una volta per tutte quelle riforme essenziali tante volte promesse ma mai poste in atto dalle coalizioni di centro-sinistra. «Anziché fare», ha scritto Paolo Virno, «come i governanti di Berlino Est che nel ’53, di fronte ad una sommossa operaia, sembrarono inclini (per dirla con Brecht) a “scegliersi, sdegnati, un altro popolo”, la sinistra sindacale, nel ’69, accettò senza riserve il suo “popolo” per quello che realmente era» piegandosi a molte sue istanze e tentando di recuperarlo a una politica riformista. «Questa straordinaria permeabilità costituì, in Italia, un caso pressoché unico»: mentre tutte le altre istituzioni si chiusero a riccio di fronte al sommovimento operaio, il sindacato si lasciò modificare e qualche volta travolgere dal “nuovo” che stava irrompendo sulla scena, riacquistando proprio per questo forza, rappresentatività e una straordinaria capacità di gestire e controllare la radicalità espressa da ciò che restava del movimento studentesco, dalle nuove formazioni della sinistra extraparlamentare e dagli operai più giovani e turbolenti (Paolo Virno, Autunno operaio, supplemento a “Il Manifesto”, 1989).

Uno dei capitoli più interessanti del volume è quello intitolato Lotte di classe in corso d’opera (pp. 57-110): qui Giachetti apre gli orizzonti del suo lavoro e punta lo sguardo oltre i confini italiani. Lo studioso ci ricorda che tra gli anni 1968-1973 i paesi dell’Europa occidentale e orientale, gli Stati Uniti e l’Argentina furono attraversati da agitazioni operaie, i cosiddetti scioperi “selvaggi”, scioperi cioè che nascevano direttamente dalla base con regole diverse sia nelle modalità di lotta che nelle rivendicazioni da quelle che avevano ispirato le agitazioni sindacali fino a quel momento. Il “sindacato che rincorre il movimento” e la nascita di forme di organizzazioni spontanee di lavoratori, comitati, assemblee e consigli di fabbrica furono elementi che caratterizzarono il 1969 nel mondo così come nel nostro Paese.

Concludendo possiamo dire che se l’intento del libro era quello di raccontare al grande pubblico quella stagione di lotte, l’obiettivo è stato sicuramente centrato: il volume si presenta come un utile strumento non solo per avere un’idea precisa di cosa accadde e perché ma anche un punto di partenza per futuri approfondimenti. Il glossario, la bibliografia ragionata e le molte schede che accompagnano via via il racconto non solo chiariscono e sciolgono eventuali nodi interpretativi ma aiutano a fare il punto della situazione, ad aprire delle parentesi nel racconto, a proporre spunti per altre letture e per altre chiavi interpretative.

Link: Diego Giachetti, L’autunno caldo, Roma, Ediesse, 2013