Werner Herzog ‘My son, my son, what have ye done’


Di Marco Loprete
marcoloprete@libero.it

Per tutta la vita danzare sull’orlo di un precipizio e poi, d’improvviso, cadere. E qualcuno che tenti di ricostruire la dinamica dei fatti come si fa con un puzzle, sforzandosi di mostrare le tappe che hanno condotto alla tragedia, sottolineandone al tempo stesso l’inevitabilità.
È in fondo questo ciò che accade con “My son, my son, what have ye done” di Werner Herzog. Con il suo ultimo film, il cineasta tedesco, autore di classici quali “Aguirre, furore di Dio” (1972), “L’enigma di Kaspar Hauser” (1974), “La ballata di Stroszek” (1977), “Woyzeck” (1979), “Fizcarraldo” (1981), ha realizzato un “horror dell’anima”, nella misura in cui ha inteso mettere in scena la cronistoria di una follia, l’autopsia di una discesa negli inferi della pazzia – discesa tutta interiore che ad un tratto si rivela al mondo esterno nelle forme di un gesto orribile: il matricidio.
La pellicola (il cui produttore esecutivo è David Lynch) è ispirata ad un fatto di cronaca: la vicenda di Mark Yavorski, aspirante attore, il quale, nel giugno del ’79 a San Diego, California, uccise la madre con un’antica sciabola. La sceneggiatura, scritta in collaborazione con Helbert Golder, era pronta già dalla fine degli anni novanta, ma solo dopo un incontro con Lynch lo script si è trasformato in un lungometraggio, presentato nel 2009 alla 66a edizione del Festival di Venezia.
Dal punto di vista drammaturgico, dunque, tutto è molto semplice: Brad McCullum (uno spettacolare Michael Shannon, già candidato l’anno scorso all’Oscar come Miglior attore non protagonista per “Revolutionary Road” di Sam Mendes), giovane attore, dopo aver ucciso con una spada antica la madre (Grace Zabriskie, già vista nei lynchiani “Twin Peaks”, “Cuore selvaggio”, “Fuoco cammina con me” e “INLAND EMPIRE”) mentre questa era in visita da alcune vicine, si barrica in casa con alcuni ostaggi. Sul posto accorrono il detective Hank Havenhurst (Willem Dafoe) ed il collega Vargas (Michael Peña). Il primo, con l’aiuto di Ingrid (Chloë Sevigny), fidanzata di Brad, e di Lee Meyers (Udo Kier), regista teatrale amico dell’omicida, cerca di ricostruire i fatti.
Ed è a questo punto che il film prende una piega ben netta: Herzog, attraverso l’uso del flashback, dà forma di immagini alle testimonianze di Ingrid e Lee, mostrandoci alcuni episodi salienti della vita di Brad. Lo scopo non è tanto quello di mostrarci il movente alla base del gesto del giovane (come le regole dei film di detection vorrebbero), quanto piuttosto quello di comporre il mosaico della sua disturbata personalità. Assistiamo così ad una crisi mistica durante un viaggio in Cile, a scene che testimoniano del malsano rapporto del protagonista con la madre (la quale tratta il figlio alla stregua di un bambino), ad intemperanze durante le prove dello spettacolo in cui Brad è impegnato (l'”Elettra” di Sofocle) – insomma a tutta una serie di gesti indicativi di un gravissimo stato depressivo. Lo stile lirico-visionario di Herzog mescola a questo materiale frammenti di visioni di Brad, accompagnate da una colonna sonora usata spesso con un effetto straniante.
Sullo sfondo di un quartiere residenziale di San Diego lindo, pulito (nella cui immobilità, tuttavia, riecheggia lo spettro della Morte) si consuma il dramma. Brad compie un gesto estremo, forse il gesto peggiore che un uomo possa compiere: uccide sua madre, la donna che gli ha dato la vita, che l’ha messo al mondo. Proprio come Oreste uccide la madre Clitennestra nella tragedia sofoclea, messa in scena da Lee Meyers ed in cui Brad interpreta proprio il ruolo del matricida. Emerge, dunque, il secondo tema fondamentale intorno a cui ruota la pellicola di Herzog: quello del confine sottilissimo che separa Arte e Vita. Attore e personaggio si confondono: «alcuni interpretano un ruolo, altri recitano una parte», dice ad un tratto Brad a Lee Meyers, fornendo così le prove così di un processo di identificazione fortissimo ed irreversibile. Al punto tale che quando il giovane (nel frattempo fatto fuori dalla compagnia per via delle sue intemperanze) si reca alla prima dello spettacolo, comincia a recitare ad alta voce, tra lo sbigottimento degli altri spettatori, le battute di Oreste, quelle che il personaggio pronuncia nel momento-clou dell’uccisione della madre. Altro indizio di come il dramma interiore sia destinato a diventare ben presto (psico)dramma pubblico – nel senso letterale del termine: il protagonista, asserragliato nella propria abitazione, è circondato da poliziotti e curiosi che assumono le fattezze di un pubblico, separato nettamente dal palcoscenico su cui si svolge l’azione (la casa di Brad, nella quale la camera di Herzog non penetra mai durante le fasi del sequestro, perché essa, al pari di un palcoscenico teatrale, è inaccessibile allo spettatore).
Brad: nella sua pazzia, egli è il tipico “eroe” herzogiano, un outsider che si muove lungo il sottilissimo crinale che separa l’illuminazione suprema (durante un viaggio in Cile dice di aver incontrato Dio: è grazie alle visioni che il Signore gli avrebbe inviato che si rifiuta di scendere in canoa un fiume assieme ai suoi compagni di viaggio, scampando così alla morte) dalla pazzia e il cui desiderio di una fuga, di una liberazione, si rivelano impossibili da raggiungere. Da questo punto di vista, Brad è un moderno Aguirre: e non è un caso, forse, che Yavorski, nella roulotte in cui viveva dopo aver trascorso otto anni in un manicomio criminale messicano, avesse appeso proprio un poster di “Aguirre, furore di Dio”, intorno al quale aveva eretto un vero e proprio piccolo altare, con tanto di candele accese.
Un senso di tragica ineluttabilità aleggia su tutto il film dalla prima all’ultima scena: Herzog, insomma, sembra voler affermare l’inevitabilità del gesto di Brad, inevitabilità al cospetto della quale ogni ricerca di un movente è assolutamente inutile. Ecco perché “My son, my son, what have ye done” non è il classico hostage-thriller, ma piuttosto uno sguardo lucidissimo su un labirinto di follia, solitudine, disperazione, in cui non c’è catarsi e non c’è liberazione.