Christopher Nolan ‘Inception’

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Di Marco Loprete

marcoloprete@libero.it

Cos’è il sogno? La risposta a questa domanda – inutile dirlo – non è affatto semplice. In molti si sono adoperati per cercare di districare l’enigma delle visioni che popolano la nostra mente quando chiudiamo gli occhi e ci abbandoniamo tra le braccia di Morfeo. Per Freud, ad esempio, il sogno è uno strumento attraverso il quale si manifestano desideri censurati (perché ritenuti inaccettabili) dall’Io cosciente. Per Jung, fondatore della psicologia analitica, esso è invece «un’autorappresentazione spontanea della situazione attuale dell’inconscio espressa in forma simbolica» (“Considerazioni generali sulla psicologia del sogno”, 1948), ovvero, in sostanza, una forma di comunicazione tra la sfera conscia e quella inconscia che obbedisce al principio di compensazione e contribuisce ad equilibrare il sistema psichico dell’individuo.

E per Dominic Cobb? Cos’è per Dominic Cobb il sogno? Esso è innanzitutto uno “strumento” di lavoro. Egli infatti è un ladro, ma un ladro del tutto particolare: un ladro di idee. Approfittando del fatto che la mente, nella fase R.E.M., è più vulnerabile, indifesa, Cobb penetra nei sogni altrui per rubare preziosi segreti nascosti nelle profondità del subconscio delle proprie vittime. La sua, insomma, è una forma di spionaggio industriale estremamente sofisticata: tuttavia, qualcosa in passato è andato storto, ed il nostro è stato costretto ad abbandonare gli Stati Uniti ed i suoi due figli. La sua unica speranza di ricongiungersi a loro viene da un potente uomo d’affari cinese, Saito. Questi gli fa una proposta: dovrà impiantare nella mente di Robert Fisher, figlio di un suo rivale in affari, l’idea di smantellare l’impero economico che erediterà a breve dal padre morente. In altri termini, Cobb (con l’aiuto del suo fidato team), contrariamente al solito non dovrà compiere un'”estrazione” ma un “innesto” (“inception”, per l’appunto), operazione assai rischiosa; in cambio, Saito promette di sistemare le cose negli Stati Uniti per consentire a Cobb di potervi finalmente tornare.

Ora, andare avanti nel racconto della trama significherebbe inevitabilmente svelare particolari che, se anticipati, toglierebbero allo spettatore buona parte del divertimento. Qualche considerazione di tipo analitico, però, possiamo farla.

“Inception” è stato presentato da qualcuno come una sorta di incrocio tra James Bond e Matrix. Nulla di più lontano dal vero. Certo, in quest’ultimo capitolo della filmografia di Nolan non mancano le sequenze d’azione (una, in particolare – una sorta di inseguimento sugli sci con tanto di sparatoria -, sembra omaggiare esplicitamente “Agente 007 – La spia che mi amava”, decimo film della saga dedicata alla celebre spia inglese diretto da Lewis Gilbert nel 1977), così come sono presenti combattimenti e trovate visive che fanno pensare indubbiamente alla fortunata trilogia dei fratelli Wachowski. Ma ciò non rende giustizia al film: non è possibile derubricare una pellicola dell’intelligenza e della ricchezza di “Inception” a mero ibrido di due blockbuster.

Perché in realtà nel film del talentuoso regista inglese, più che l’azione, più che la storia in sé, contano la riflessione sulla natura ambigua della realtà, l’esplorazione delle zone più oscure dell’interiorità umana, il senso di colpa – tutti temi che Nolan ha già ampiamente sviscerato in film meravigliosi quali “Memento” (2000), “Insomnia” (2002), “The Prestige” (2006), “The Dark Knight” (2008). Per non parlare, poi, della prospettiva metacinematografica. Sta forse qui il cuore di questo stupefacente marchingegno che è “Inception”. In fondo, quando Leonardo DiCaprio (perfetto nei panni di Cobb) descrive alla talentuosa “architetto di sogni” Arianna (interpretata da Ellen “Juno” Page) il sogno come un’atto dell’ispirazione a metà tra la creazione e l’esplorazione di un mondo, non sta facendo nient’altro che rivelare al pubblico il Nolan-pensiero sulla natura del cinema. La stessa strutturazione dei sogni è emblematica: l'”architetto” che progetta lo scenario onirico non è nient’altro che il Regista, mentre chi riempie il sogno con le proiezioni del proprio inconscio, ammantando di un velo di realtà ciò che reale non è (nel film, Cobb e compagni), siamo noi Spettatori, perché siamo noi, in ultima analisi, a dare un significato ovvero a caricare di suggestioni personali ciò che vediamo (da qui la soggettività dell’esperienza artistica). Ma Nolan va oltre e suggerisce che il Film stesso, in un certo senso, ci “osserva” e ci “modifica”. La discesa nei molteplici livelli del sogno da parte di Cobb, necessaria per portare a termine la missione, nel film va di pari passo con la discesa nei più oscuri recessi della sua stessa tormentata psiche, per cui Dominic, ad un certo punto, sarà costretto a fare i conti con un passato che ha cercato di seppellire (letteralmente) in una zona remotissima del proprio Io («e se scruti a lungo un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te», scriveva Nietzsche nel 1886 in “Al di là del bene e del male”). La stessa cosa – sembra suggerire Nolan – accade a noi spettatori quando guardiamo un film: attribuendogli significati che scaturiscono dal nostro profondo, finiamo col far emergere e rivelare a noi stessi qualcosa che giace sepolto in noi. Il cinema, insomma, come specchio che ci mette davanti alla parte più profonda di noi stessi costringendoci a fare i conti con essa, “trasformandoci”. È questo, in definitiva, il meccanismo alla base della “catarsi” aristotelica.

Anche la dilatazione/contrazione dei tempi che caratterizza il film (giustificata diegeticamente con una strutturale mancanza di sincronismo tra i vari livelli del sogno) altro non è che uno strumento di riflessione sul rapporto tra tempo della storia e tempo del racconto, e dunque sul divario tra il tempo della diegesi e il tempo di durata del film.  Tutte le pellicole (salvo rarissime eccezioni) altro non fanno che condensare in una durata di due, tre ore storie che magari durano giorni, mesi, anni o addirittura secoli (pensate a “2001: odissea nello spazio”, in cui si passa dalla preistoria ad un futuro remotissimo in soli 140 minuti): ecco perché buona parte della seconda metà del film è incorniciata dall’immagine rallentata della caduta da un ponte del furgone che trasporta su un determinato piano del sogno Cobb è la sua squadra. Dilatare un evento che dura al massimo venti secondi fino a farne una sorta di blob che ingloba quasi un’ora di film non è soltanto un modo per accrescere la suspence negli spettatori: è soprattutto l’ennesimo stratagemma di cui Nolan si serve per smascherare i meccanismi della narrazione cinematografica.

Ma “Inception” non è solo questo. È anche, dicevamo, l’ennesimo film su un uomo che, incapace di accettare la realtà, sceglie di mentire a se stesso e di rifugiarsi in un mondo fittizio. Solo che mentre in “Memento” (film con cui “Inception” vanta notevoli parentele non solo concettuali ma anche stilistiche) la via di fuga a disposizione del protagonista sono i ricordi che egli stesso crea “artificialmente” approfittando di un cattivo funzionamento della sua memoria, in “Inception” è il sogno l’autostrada da percorrere se si vuole evitare il rischio di fare i conti con la dolorosa realtà. Ed il risultato, in entrambi i casi, è uno solo: il confine tra ciò che esiste fisicamente e ciò che è prodotto dalla mente o dall’inconscio si assottiglia al punto tale da svanire, consegnando allo spettatore l’immagine di un’umanità confusa e dolente, oppressa da un senso di colpa inestirpabile che alla lunga condiziona tutte le scelte di vita (quando non ne diventa l’unica ragione).

Estremamente complesso, sfaccettato, ricco di temi e spunti di riflessione, “Inception” è insomma l’opera di uno dei cineasti più intelligenti e tecnicamente dotati degli ultimi vent’anni. Fatta eccezione per qualche piccola concessione all’epica action di stampo blockbuster, non c’è un’inquadratura fuori posto o una scena di troppo in questo film: la sceneggiatura è un marchingegno perfetto, i dialoghi scorrono via senza intoppi e di DiCaprio è semplicemente stellare (ma anche Marion Cotillard nel ruolo della moglie se la cava egregiamente).

Film strepitoso.

Link: “Inception” (Christopher Nolan, 2010)