Magnetic Fields ‘Realism’

(Nonesuch 2010)

“Realism” si presenta come il gemello femminile e dolce dell’ultimo “Distorsion” (2008) col quale Stephin Merritt si era rigettato nel noise-pop a bassa fedeltà che già in passato aveva più volte sfiorato. I due album, nel progetto dell’autore, devono essere un tentativo di dividere in due l’ecletticità musicale di Merritt: da una parte l’elettricità (che regna in “Distortion”) dall’altra la dolcezza folk (padrona in “Realism”). Del resto già le copertine dei due dischi dicono molto del progetto del cantautore americano. L’omino stilizzato delle toilette pubbliche su fondo blu campeggia su quella del disco di due anni fa, segnalando la dimensione più mascolina e dura di quel lavoro, mentre in questo troviamo una silhouette femminile su fondo salmone, a indicare un maggiore leggiadria e solarità folk.

Ma se cercate il folk caldo e revivalista tanto in voga negli ultimi anni avete sbagliato disco. I Magnetic Fields riscoprono strumenti dimenticati (ukulele, tabla e altri strampalati strumenti a corda) e danno vita a un teatrino surreale e gelido, che si giova di una dimensione “domestica” che rende il lavoro così piacevolmente sporco, autentico, carico di tepore. Sembrano i Jesus and Mary Chain che strimpellano davanti al caminetto con l’intento di somigliare al primo Dylan.

Un’esperienza straniante, a metà tra il bucolico da rodeo (vi sfido a non seguire i coretti di We Are Having a Hootenanny) e la ballata southern (l’incredibile traccia d’apertura You Must Be Out Of Your Mind). I riverberoni artificiali, gli echi profondi e la voce baritonale di Merritt rimandano a volte a mondi empirei (I Don’t Know What To Say), altre a oscure strade di dannazione (Walk a Lonely Road sembra un pezzo di Mark Lanegan sotto formalina), ma in realtà ogni canzone è un oblò sul mondo sfaccettato dei Magnetic Fields, stavolta osservato con gli occhiali del folk ma certo non facendo di questa una limitazione, ma anzi un modo di colorare il tutto per dargli un senso che, album dopo album, si arricchisce di nuovi elementi.

Un disco che ha bisogno di più ascolti per penetrare nelle grazie dell’ascoltatore e che vede tornare i nostri ai fasti della prima fase della carriera (vedi “Holiday”) e conferma Stephin Merritt uno dei più geniali cantautori contemporanei. Rimane il dubbio che forse sintetizzando questo disco e il precedente (rispetto al quale appare senz’altro più compiuto) si sarebbe potuto ottenere un capolavoro, ma sono sottigliezze. Pollice assolutamente in alto.

Voto: 8

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