Matt Davis, Matt Milton, Bechir Saade ‘dun’

(Another Timbre 2008)

Una volta tanto, una copertina leggermente meno anonima del solito per un cd targato Another Timbre. Anzi, la foto che ci introduce alla musica è molto misteriosa ed evocativa. Un lago avvolto da una fitta nebbia, e tre le sue acque fangose, oltre alla vegetazione riflessa, quello che sembra essere il disegno sovraimposto di una figura umana. O forse mi sbaglio e si tratta di qualcos’altro? Guardando meglio, effettivamente c’è qualcosa che non mi convince. Fatto sta che questi paesaggi naturali, scuri e desolati, bene si addicono a quanto proposto da Bechir Saade, clarinetto contrabbasso e flauto, Matt DavisMatt Milton, violino. In quel paesaggio ‘dun’ è come una coltre scure che si materializza improvvisa all’orizzonte, avvolge ogni cosa con il suo respiro flebile e le dona una scintilla di vita. Quasi in un rito animista ciò che era silente e incosciente canta la sua tragedia e racconta il suo dolore. Non posso esimermi da considerazioni sulla parvenza drammatica e misticheggiante di queste musiche, giacché, almeno in quanto sin qui da me ascoltato, ogni cd prodotto dalla label inglese sembra avere questa particolare impronta stilistica. Neanche a dirlo anche questo cd è stato registrato all’interno di una chiesa. Tutto ciò non nuoce, intendiamoci, almeno alle orecchie del sottoscritto. Specie se la musica è di qualità come in questo caso. Basta già l’inizio a generare subito incanto. I fiati di Saade e Davis in un abbraccio elegiaco, che mescola sbuffi, polifonia e scricchiolii quasi a voler smontare il mondo, con suoni più caldi e tradizionali, nella maggior parte dei casi da ascrivere alla tromba, quasi melodici per il modo gentile in cui si dispiegano, almeno nella parte iniziale della prima traccia. Più imperscrutabile la parte rimanente, con i due spesso a dialogare in un codice morse estremamente sparso. Ottimo anche il lavoro di Davis, discreti e diradati, ma sempre mirati ed efficaci i suoi interventi al violino, con corde ora come strappate ora dolcemente straziate. Ancora più ineffabile il suo utilizzo di field recordings: qua e là si percepisce come un sussulto o un baluginare di quelli che potrebbero essere suoni naturali riprocessati, ma dato l’utilizzo poco ortodosso della strumentazione, di più non è dato sapere e il forse è d’obbligo. Della prima performance in parte ho detto, ma diversi sono i momenti speciali del cd, in particolare trovo incantevole quel fitta conversazione muta e surreale che caratterizza gli ultimi minuti della seconda traccia e quel suono (elettronico ?) maledettamente insidioso alla fine della stessa. Tutto molto astratto, a tratti parecchio sfuggente, ma anche dotato di una sua intima coerenza, di un suo scorrere preciso e naturale, che rende ‘dun’ una piccola meraviglia. Molto bello.

Voto: 8

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