Massimo Del Papa

E’ passato qualche giorno dal ventuno Gennaio…

Introduzione di Michele Trotta

soswetty@katamail.com

E’ passato più di qualche giorno dal ventuno Gennaio, quella sera Massimo Del Papa ha portato (assieme a Paolo Benvegnù, ex cantante degli Scisma) la lettura di alcune parti dei suoi ultimi due libri: ‘Il mio mestiere è questa vita’ e ‘Presto o tardi’. A invitarlo sul  palco del B-side,  è il giornalista Eliseno Sposato, curatore del “Sotterranei pop Live” (che prende il titolo dall’omonima trasmissione di cui è ormai conduttore da 11 anni, sulle frequenze di RLB), ottima rassegna di eventi musicali rivelatasi formula di gran successo.
Del Papa è un giornalista che in Italia ha pochi affini (forse giusto Milena Gabbanelli e Giorgio Bocca) ed infatti paga la sua coerenza e la sua passione con una visibilità che non rende giustizia: scrive sul Mucchio Selvaggio e sul suo blog: babysnakes.splinder.com.

Intervista a cura di: Valeria de  Stefano imaginaryboys@hotmail.it

                               Michele Trotta soswetty@katamail.com

foto di Patrizia Chiarello

 

a)  In un brano scrivi: “E’ strano: non  ho mai scritto per compiacervi, mi sono specializzato nel fare incazzare chi mi legge”. Ti chiedi mai come la gente ti percepisce leggendo i tuoi articoli/libri/ blog?

Sai, è un mistero. Proprio un mistero. Certe cose pensi che piacciano e non toccano nessuno. Altre arrivano, e, soprendentemente, arrivano a tutti nello stesso momento. Gli scritti fanno quello che vogliono! Ma suppongo che sia il bello del gioco: non puoi mai sapere, in realtà. E ognuno poi se li vive, se li rielabora a modo suo. Ti dicono: “questo l’hai scritto per me, questa è la mia vita”. Ognuno trova quello che vuole trovarci, lì dentro, e in un certo senso è giusto: una volta che le proponi, sul blog o in un libro, quelle cose non ti appartengono più, diventano parte di chi le riceve. Per natura, non mi pongo mai il problema di come verrà accolta una determinata scrittura: il pubblico è un mare senza facce, un mare capriccioso, pronto a cullarti e un attimo dopo a diventare rabbioso, e a sommergerti. Inoltre, a me piace accorciare le distanze, raggiungere chi sta “dall’altra parte”: anche negli spettacoli, come hai visto, “entro” spesso tra il pubblico, se appena posso, e non è solo un espediente scenico: per me ha grande significato. Però deve avvenire alle mie condizioni: il senso di sacrificarsi al pubblico, di fare quello che lui si aspetta, non c’è. Non è lui il mio padrone. Io propongo le mie cose: se piacciono bene, altrimenti… avanti un altro!
b) Nell’ultimo libro ‘Presto o Tardi’ ci sono diversi racconti che parlano di vita, morte, dolore. Secondo te è giusto esorcizzare esperienze quali la sofferenza, la morte al punto di negarli a sè stessi? La tv è in parte complice di questa operazione di “rimozione”?

Io guardo in faccia la sofferenza. Vado dove ci sono i morti, ci parlo. Non mi sottraggo e non capisco chi si sottrae: quando la morte vuole, ti trova. Aggiungi che senza sofferenza non esce niente, in nessuna forma d’arte. Non che si debba cantare solo di quella, ma quella, piaccia o no, esiste. Ed è il propellente. E’ lei che ti smuove, che suscita la tua disperazione al punto che devi fare qualcosa per superarla. Io scrivo, altro non potrei fare. Mentre la televisione, non c’è dubbio che crea l’effetto rimozione. E’ ancora Pasolini: prendi un dramma, centrifugalo in tv. Diventerà uno show che non disturba più nessuno, che puoi manipolare. Trent’anni e passa dopo, questo è vero più che mai.
c) Tra le righe di diversi scritti si colgono sarcasmo e autoironia. Quest’ultima è anche alla base di eventi di quotidianità “minima”. Quanta importanza ha nella tua vita l’autoironia?

Sarcasmo, autoironia non li cerco: fanno parte del mio carattere, semplicemente. Fin da bambino, mi divertivo a prendere in giro tutto e tutti, e invecchiando questa attitudine si è fatta sempre più prepotente, feroce: invento di continuo filastrocche beffarde, prese in giro, caricature spinte all’eccesso, alla deformazione grottesca, di chi mi sta intorno. Per me è uno sfogo, o forse è l’altra faccia della mia depressione. Sarà che, come diceva Frank Zappa, “non è l’idrogeno l’elemento più diffuso in natura: è la stupidità”. E devi fare qualcosa, in qualche modo, per… sfogarti.
d) Quando ti è venuta voglia di scrivere questo libro?

Appena finito il precedente. La mia idea, ancora con Zappa, è che non c’è frattura in niente di quello che faccio: è tutta “continuità concettuale”, per cui un libro origina necessariamente il successivo. Io, inoltre, nasco come cronista, anche se ormai mi definisco solo “uno che scrive”; resto comunque abituato ad annotare quello che accade, a me, intorno a me, lontano da me. E a metterlo in pagina. Fondamentalmente, è questo quello che faccio. Per cui, libri come questi si scrivono da soli, in ogni momento, girando in Vespa, guardandomi attorno, di notte, sempre: io non lavoro mai, in un certo senso, e non smetto mai. Scrivere per me è uno sfogo, un’attività vitale. Anche perché non saprei fare altro: è questo che so fare: nel senso che, se mi dai uno spazio e la possibilità di scriverci sopra, riesco bene o male a trasmettere quello che ho dentro, che voglio fare uscire.
e) Mentre leggevo “Presto o Tardi” ho pensato diverse volte alla “disperata vitalità” di Pasolini, scrittore (e molto di più) che annoveri fra i tuoi miti di sempre, a cui dedichi anche il pezzo “Pasolini figlio del sogno”.  Pasolini quanto ha influenzato la tua vita e la tua scrittura?

La scrittura no, lui aveva un modo molto asciutto e a volte anche involuto, almeno nelle prose. Come influenza spirituale, diciamo così, non c’è dubbio: Pasolini non smette di parlare a chiunque voglia fare questo, esprimersi con la scrittura o comunque in una qualsiasi forma d’arte. E’ lì la sua testimonianza, ed è scomoda. E’ impossibile prescindervi. Quel modo di mettersi costantemente nei guai, di disperdere ogni volta il patrimonio di credibilità appena conquistato. E ricominciare da capo. “L’intellettuale se non suscita scandalo ogni volta che apre bocca, non è un intellettuale”, diceva. Non penso che si debba per forza
inseguire quegli effetti, ma tenere conto di questa verità, questo sì. E certe sue chiavi di lettura per decodificare la realtà, rimangono fondamentali.
f) Per te l’arte vera attinge sempre dalla realtà? Le emozioni devono essere sempre vere per essere raccontate?

Non so se sono quello giusto per rispondere a una domanda così. Dopotutto io sono un cronista anche se prima correvo dietro ai fatti e adesso alle emozioni. Ma non so quanto si possa parlare di arte. Comunque, in un senso generale, la metterei così: in qualsiasi forma espressiva, se fingi, il primo ad accorgersi è chi ti ascolta, chi la recepisce. Io ho una mia teoria: le stesse parole possono suonare in modo diverso a seconda di chi le stende. E’ proprio un fatto di credibilità ed io non solo leggo le cose che sento dentro, ma cerco di farlo con la maggiore sincerità possibile, anche sapendo di prendere dei rischi. Ma se non ti emozioni sul serio, come fai ad emozionare chi ti riceve? Inoltre, si parla sempre dell’uomo, il che significa, anzitutto, di noi stessi. Finché ti accorgi che le tue emozioni, le tue esperienze sono quelle di tutti. Non è strano, è perfettamente normale. Guarda, tu mi hai sentito leggere un dramma privato come la morte di un padre, per malattia. Ebbene, non avevo idea di quanta gente, ogni volta, dopo uno spettacolo, viene a dirmi “ho capito, ho rivissuto, ci sono passato anche io”. Tu credi che sia una cosa privata, terribilmente privata… e invece quasi tutti sanno di che parli, e lo hanno scoperto prima di te! Così, in qualche modo, una narrazione personale, di sentimenti atroci, ritorna ancora una volta giornalismo, informazione: potrei fare un articolo, sull’incidenza del cancro nelle famiglie, molto più che dopo essermi documentato in internet o in un ospedale. Ed è partito tutto dal palco, da uno spettacolo, da parole diverse da quelle che avrei usato come cronista.