Early Day Miners ‘Offshore’

(Secretly Canadian/SC Distribution/Wide 2006

Early Day Miners è il nome dietro cui si cela Daniel Burton, voce, chitarra e mente della band fondata nel 1998 assieme al batterista Rory Leitch, suo compagno d’avventure negli Atvin. Nel progetto, alla base del quale c’è l’idea di suonare un incrocio tra post-rock, slowcore e folk, furono coinvolti in seguito Joseph Brumley, (chitarra), Jonathan Richardson (basso) e Matt Griffin (batteria). All’esordio di “Placer Found”, (Westerns Vinyl, 2000), disco dal sound dilatato e intimo al tempo stesso, si affiancarono altre cinque prove, tra le quali una colonna sonora (“Stateless”, accreditata a Unwed Sailor & Early Day Miners) per l’omonimo cortometraggio di Chris Bennet del 2001, e un EP di sei canzoni (“The Sonograph”, del 2003). Questo “Offshore” segue di un solo anno “All Harm Ends Here” (Secretly Canadian, 2005), a dimostrazione di come spirito indie e prolificità vadano spesso d’accordo.
Le partiture, originariamente composte nel 2001 per il loro disco-capolavoro “Let Us Garlands Bring” (Secretly Canadian, 2002) e qui rielaborate, denotano l’influenza del sound dilatato e cupo degli shoegazer britannici (My Bloody Valentine e Cocteau Twins su tutti), dell’etno-pop di Peter Gabriel e di certe malinconie indie-folk.
L’opera si divide idealmente in due blocchi: i primi tre brani, infatti, si susseguono senza soluzione di continuità, tratteggiando un’unica, monumentale suite e lo stesso fanno le tracce dalla tre alla sei. Sin dall’apertura, affidata allo strumentale Land Of Pale Saints, è possibile ricavare un’idea di ciò che sarà l’ascolto di “Offshore”: un lungo viaggio in una terra fredda, oscura ed inospitale. Il drumming incalzante e le chitarre abrasive del pezzo accentuano la tensione emotiva ed il senso di claustrofobia, che si stemperano nel secondo movimento, Deserter, in cui riecheggia il Peter Gabriel di “So”, e nel terzo, Sans Revival, in cui l’influenza del leader dei Genesis si mescola alla psichedelia dei My Bloody Valentine. E’ con Return Of The Native, però, che il disco manda il suo primo acuto: il pezzo è una oscura ballad di ascendenza western, il cui paesaggio sonoro sospeso tra malinconia e spettrale cupezza sembra derivare da certe visioni desertiche di Mark Lanegan o dalle rassegnate solitudini di Chris Isaak. La voce che danza leggera sulle note della chitarra non è quella gabrieliana di Daniel Burton, ma quella meravigliosamente intensa di Amber Webber (Black Mountain). La coda strumentale del brano sfocia nelle dilatazioni atmosferiche della traccia successiva, Silent Tents, ma sono gli oltre nove minuti di Hymn Beneath The Palisades, con il suo emozionante crescendo strumentale, a lasciare un secondo indelebile segno nell’immaginazione dell’ascoltatore.
E’ sulle note di questo “inno” post-rock che termina “Offshore”, un disco indubbiamente affascinante, ma non completamente riuscito, in cui la raffinatezza delle composizioni va di pari passo con una certa staticità e ripetitività.
Missato e prodotto da John McEntire dei Tortoise.

Voto: 6

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