Marcos Fernandes / Hans Fjellestad / Haco / Jakob Riis ‘Haco Hans Jakob Marcos’

(Accretions 2006)

Caotico ed aggressivo; contemplativo e minimale.
Nel calderone dei possibili incroci stilistici contemporanei non possiamo fare
a meno di notare come, certa improavant illuminata stia scivolando
sempre più verso territori brutisti di nevrotico taglio industrial.
Una carica aggressiva che pare ripudiare (in parte) le mollezze autoreferenziali
di un genere spesso unico asilo per esecutori tecnicamente mirabili senza lo straccio
di un’idea.
Che l’esterno globale influenzi la fase creativa non è un male se
i risultati sono tali, un’impressione generale diffusa di forte malessere.
Ci è capitato di riscontrarne i segni in lavori come l’ultimo di Emily
Hay
(in condivisione con Marcos Fernandes), negli sferragliamenti stridenti
del duo Studer / Yoshida; nelle cacofoniche (leggi apocalittiche)
nubi sonore create dal duo Kaiser / Pask.
Un processo di incupimento espressivo che non può esser che salutato con
piacere in virtù dell’atteggiamento hardcore (oltre il limite) che
si porta dietro ma; in contemporanea può suscitare più di una genuina
perplessità questo confronto con masse stridenti in movimento.
Quattro musicisti provenienti da varie zone del mondo che si ritrovano in uno
studio di Tijuana, Haco dal Giappone, Hans Fjellestad dalla California,
Jakob Riis dalla Danimarca e Marcos Fernandes nel ruolo del
perfetto meticcio (nato in Giappone e residente in quel di San Diego).
Ognuno di loro è un’agitato agitatore, la piccola Haco in molti
se la ricorderanno per i suoi trascorsi negli After Dinner, Marcos è
uno dei fondatori del collettivo artistico (tenete sempre d’occhio le produzioni
che vi propinano) californiano Trummerflora, Hans è un musicista
girovago nonchè apprezzato filmmaker e buon’ultimo Jacob; stimato compositore
ed improvvisatore.
Il cd in questione non scivola via semplice, diciamo che ti si avvinghia alle
caviglie e cerca di non mollar la presa testardo.
Sornione apre giocherellando col ritmo, uno pensa subito di trovarsi al cospetto
di una simpatica operina estiva defatigante; grave errore!
Giocando sulle limitazioni (i diversi idiomi parlati fra i musicisti, limitazioni
strumentali ed esecutive impostesi) il quartetto si pone sulla scia rugginosa
delle prime sperimentazioni di TG e Cabaret Voltaire (giuro che
non sono impazzito!).
In genere si viaggia a vista fra modulazioni elettroniche secche e dissonanti,
spasmi percussivi e vocalizzi post umani; un impasto caotico ricco di ipnotico
fascino sotterraneo.
Speak
è un gemito implorante singhiozzato ritualisticamente.
Last apparentemente qualcosa concede, nella sua propulsione quasi gamelan
pare indicare un possibile percorso futuro.
Zone d’ombra rugginose alternate a fasi ottundenti.
Ottimo per comprendere le mutazioni attuali in corso.
Concedetegli un ascolto.

Voto: 7

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