Transasia E Nuova Collaboratrice Carmilla Al Future Film Festival.
ENKI BILAL, VISIONI DI FINE MILLENNIO.
di Carmilla
splappis@yahoo.it
Il Future Film Festival 2005 rende omaggio all’opera cinematografica di Enki Bilal, fumettista, autore di più di 20 album, e al tempo stesso, scenografo, sceneggiatore e regista.
Enki Bilal nasce a Belgrado nel 1951, nella ex-Yugoslavia, ma nel 1961 si trasferisce in Francia, a Parigi, dove inizia ad interessarsi al fumetto e al cinema. A partire dal 1980, anno di pubblicazione della “Fiera degli Immortali”, la prima storia interamente scritta e disegnata da lui, le sue tavole ottengono numerosissimi riconoscimenti e sono protagoniste di prestigiose esposizioni , dalle capitali europee fino al Palais di Tokio.
Benché meno nota, l’attività di Bilal nel mondo del cinema è altrettanto rilevante: inizia con diverse collaborazioni fra Bilal e Alain Resnais(per il quale il fumettista cura manifesto, scenografie e costumi del film “La vie est un Roman “, 1982) e culmina nella realizzazione di tre film con Bilal alla regia: ”Bunker Palace Hotel”(1989), ”Tykho Moon”(1996) ed “Immortal ad Vitam “( 2004). La visione sequenziale dei tre film (di cui i primi 2 in anteprima italiana al festival) è una esperienza decisamente interessante. Di opera in opera, progressivamente e vistosamente, il talento da cineasta di Bilal cresce. Cambiano i budget e le tecniche, da science-fiction analogico in puro stile 80 fino ai personaggi in 3D di Immortal. Gli immaginari futuristici si potenziano e si arricchiscono: in Tykho Moon l’uomo ha colonizzato la Luna, in Immortal una piramide aliena sovrasta il cielo di New York. In tutti i 3 film, eppure, emergono con costanza, quasi ostinata, i leitmotif del mondo Bilal: la fragilità della memoria, l’incertezza delle identità, la ricerca insoluta delle origini, l’instabilità e la corruzione dei politici, la tirannia della scienza medica che inganna e che calpesta la vita. Il tutto sospeso in inquieti scenari futuristici del nostro mondo, un mondo per il quale l’autore non esita a dichiarasi preoccupato:” [il nostro pianeta] diviene giorno dopo giorno sempre più debole. Mi trasmette la sensazione di qualcosa di desertico, di sterile. Abbiamo rubato troppo alla Terra e causato un danno irreparabile..”.
Bunker Palace Hotel (Francia, 1989, 76 min) si svolge in un immaginario futuro di fatiscenza, dominato dal caos e dall’instabilità; per sfuggire ai rivoluzionari gli esponenti di un regime in disfacimento si rifugiano in un bunker sotterraneo, gestito da automi, progettato per proteggerli e per garantire loro tutti i confort. Al suo interno, tra gli altri, ci sono: l’industriale Holm (Jean-Louis Trintignant) che, almeno in apparenza, svolge il ruolo di garante dell’ordine e della fiducia in un nuovo Regime; una infiltrata rivoluzionaria, Clara (Carole Bouquet), che vuole assistere con i propri occhi al declino dei potenti; un ex-componente della classe dirigente ( Benoit Regent), in passato allontanato per la sua”pazzia”, che ottiene l’acceso al Bunker dopo un intervento chirurgico con cui assume la fisionomia di Nikolai, uno degli ospiti attesi.
Enki Bilal, con una macchina da presa forse ancora non troppo esperta ma decisamente feroce, riprende le vicende grottesche dei rifugiati, in attesa di un Presidente che non arriverà mai, e alle prese con una decadenza ormai inarrestabile: il mondo è dominato dalla guerriglia, il bunker cade a pezzi, ed è insicuro, persino gli automi-servitù sono mal funzionanti. Nessuna identità è certa, Nikolai non è Nikolai, Holm si rivela essere anch’esso un automa .La tragedia incombe e non fa distinzioni, non ci sono né vinti né vincitori. E’ interessante a questo punto notare come la data di realizzazione del film suggerisce inevitabilmente il crollo reale di un regime, quello della caduta del muro di Berlino,e le sue conseguenze storiche: ”20 anni fa” dice Bilal” quando il mondo era diviso in 2 parti, ogni cosa era semplice, quasi semplicistica. Il nostro lato era quello giusto, l’altro quello cattivo. Sapevamo dov’era il nemico .Questo era il mondo in cui siamo cresciuti, ed eravamo forgiati secondo i suoi modelli. Poi il cambiamento è stato così brusco e rapido che ci ha colti impreparati. Le nostre menti non erano pronte. La guerra in Yugoslavia prova questo punto.” Bilal rappresenta quindi il necessario sconvolgimento di un mondo dove l’uomo si ribella alla condizione di automa; tale cambiamento, però, ci lascia terribilmente storditi. Progressivamente una cupa disperazione s’insinua nel Palace Hotel, culminando in una sorta di glaciazione e in un auto-massacro finale. Parallelamente cresce l’inquietudine dello spettatore, a cui è concessa solo la visione claustrofobica di quel che accade nel bunker mentre la situazione del mondo esterno, quello reale, dove sopravvive la gente comune, è limitata a qualche scena poco eloquente: eppure la decadenza del pianeta è l’unica certezza del film, ed è tanto più disperata proprio perché non ne conosciamo le cause, perché non riusciamo a localizzarla, perché non la vediamo, ma piuttosto la intuiamo. Un film dunque che ha tutti i presupposti per essere apprezzato anche da chi non è fan di Bilal, benché presenti ancora dei limiti di regia e una certa carenza nella fluidità del montaggio e del ritmo.
Tykho Moon (Francia,1996,102 min) vanta della presenza di Michel Piccoli accompagnato da Julie Delphy, Marie Laforet e la partecipazione straordinaria di Jean Louis Trintignant.
In un futuro poco lontano, il dittatore McBee (Piccoli) ha il governo di una “colonia” sulla Luna, che sembra una Parigi divisa in settori dal Muro di Berlino. Tutti i componenti maschi della sua famiglia soffrono di una misteriosa malattia e hanno bisogno di un trapianto di organi. L’intera vicenda si sviluppa intorno alla ricerca da parte dei Mc Bee del donatore ideale, Anikst -Tykho Moon (Johan Leysen).
Animato da una buona dose di ironia, Bilal ancora una volta ci descrive un mondo privo di certezze, la cui instabilità minaccia sia i buoni che i cattivi. La malattia dei Mc Bee è quasi una maledizione, una sorta di punizione per un secolare peccato originario, il cui marchio è costituito da una bizzarra macchia blu che cresce inesorabilmente sul collo dei personaggi. I tentativi del dittatore di sfuggire al proprio destino sono ostinati, e ridicoli: egli trasforma la propria dimora in una sorta di clinica, alleva un maiale da utilizzare per il trapianto, e si affida alla folle scienza medica del chirurgo Jean Louis Trintignant. Nel frattempo i componenti della sua famiglia vengono progressivamente eliminati da un ignoto assassino, mentre i pochi sopravvissuti lo accusano di pazzia, come a voler dire: il declino della razza umana è inevitabile, e chi si oppone ad esso è solo e privo di senno. La solitudine non risparmia neanche l’eroe positivo Tykho-Moon, un uomo che soffre di amnesia e che ha rinunciato al suo passato, consapevole della vanità di ogni tentativo di ricostruirlo. Per sopravvivere al caos del mondo egli possiede un’unica arma: la sua passiva serenità , che si propone come alternativa alla frenetica disperazione di Mcbee. Complessivamente il film, benché ricco di spunti interessanti, risulta meno originale di Bunker Palace Hotel, e forse appesantito da una trama troppo complicata. In effetti all’epoca della sua uscita, malgrado la presenza di attori importanti, non ha ricevuto una buona accoglienza né dal pubblico né dalla stampa. Lo stesso Bilal ammette che in Francia le sue prime due opere cinematografiche non sono state affatto apprezzate: ”sono stato criticato per aver realizzato “comic strip” film”. D’altronde Tykho Moon risulta piacevole proprio per la ricchezza di particolari di stampo BD: basti pensare ai camaleonti blu che popolano i muri della città o ai tratti dell’attrice Marie Laforet, che sembra disegnata dallo stesso Bilal. Si tratta in definitiva di un film costruito su atmosfere e colori “bilaliani” e che, dice l’autore, “nonostante le sue imperfezioni, è decisamente vicino all’assurdità del mio mondo”.
Immortal Ad Vitam (Francia/Italia/Regno Unito,2004,102 min) nasce da 4 anni di lavorazione sostenuti dalla produzione di Charles Gassot (con un bugdet decisamente superiore a quello dei 2 film precedenti) e dall’utilizzo delle raffinate tecniche digitali del Duran Animation Studio. Il risultato è un’opera affascinante dai colori freddi, in cui personaggi in carne ed ossa si muovono in armonia con animazioni in 3D.
In Immortal Bilal ha voluto trasporre su pellicola le vicende dei suoi 2 album “La Foire aux Immortales”(1980) e “La femme Piege”(1986) (che insieme a “Froid Equateur” (1992) costituiscono la celebre “trilogia Nikopol”), sottoponendole tra l’altro ad una sorta di “decostruzione” che egli definisce con queste parole: ”Immaginate qualcuno che abbia letto la trilogia e che poi si sia addormentato dopo aver ingurgitato una certa dose di sostanze illecite. Al risveglio egli ricorderà solo qualche elemento di un sogno un pò caotico. Questo è il film.”L’immaginario futurista di Bilal questa volta ci trasporta nel 2095, in una New York che, pur evocando inevitabilmente gli scenari “classici” del genere (vedi Metropolis o Blade Runner) riesce a stordirci e a meravigliarci. Le immagini introduttive, a cui la poesia di Baudelaire fa da cornice, sono di una bellezza innegabile: la metropoli è un labirinto freddo e decadente, in cui si trascina una sorta di “fauna umana” consumata dalle perversità della scienza e dell’evoluzione; l’uomo automa di Bunker Palace Hotel è qui sostituito da un groviglio di mutanti e prodotti di esperimenti genetici, che ci fanno temere l’estinzione della razza umana. Altrettanto sorprendente è la visione di un’imponente piramide aliena, che fluttua nei cieli della città, al cui interno eleganti divinità egiziane giocano a Monopoli (!). E’ in questo contesto che si intrecciano i destini del dio Horus, di Nikopol (Thomas Kretschmann,già ne Il pianista) e Jill Bioskop (Linda Hardy). Horus, condannato alla mortalità dalle altre divinità della piramide, ha individuato in Jill, un’affascinante umanoide dai capelli blu, l’unica donna adatta a portare in grembo il suo successore; egli ha solo sette giorni di tempo per incarnarsi in un essere umano e fecondare Jill. In un mondo di “disumanizzati”, l’unico corpo a sua disposizione è quello di Nikopol, una sorta di eroe rivoluzionario, che, dopo trent’anni di ibernazione in orbita nel cosmo, accidentalmente ripiomba sulla Terra. Da qui ha origine un curioso “triangolo” amoroso fra Horus-Nikopol e Jill, in cui non mancano né romanticismo, né momenti d’ilarità, basti pensare ai divertenti dibattiti fra Horus e l’eroe Nikopol, che non vuole cedere il suo corpo al disinvolto cinismo della divinità. Ma è Jill, soprattutto, con la sua purezza e le sue lacrime blu, a emergere come eroina: ella ha 25 anni ma un’età biologica di tre mesi, ignora le sue origini ed attende inquieta una trasformazione, quella che la renderà veramente umana. Tale tensione all’umano, al corpo, e alla carne in tutti in sensi, scandisce il ritmo di tutto il film, ed ha la meglio su ogni sensazione di decadenza. Bilal, che da sempre predice un’inevitabile degenerazione dell’uomo, oggi celebra la sua generazione: Jill sta per diventare donna, e una donna e un uomo sono scelti per procreare un dio.
Egli stesso dichiara che finalmente in Immortal è riuscito a conciliare l’aspetto spettacolare di un futuro metallico e disarticolato con “l’aspetto più umanista del mio universo, cioè che gli esseri , uomini e donne, hanno bisogno di esser vicini gli uni agli altri e di desiderarsi..[…] è un film su di noi, sui nostri fantasmi, sui nostri miti e sulla nostra mitologia.”