Willard Grant Conspiracy ‘There But For The Grace Of God: A Short History Of The Willard Grant Conspiracy


(Glitterhouse / Venus 2004)

Chi scrive considera i bostoniani Willard Grant Conspiracy (d’ora in poi WGC) quanto di più “bello” sia emerso dallo scrigno musicale nordamericano – diciamo – negli ultimi dieci anni. Assieme ad Eels e Calexico. Premessa doverosa per indicare da subito quanto il dischetto in questione – un’antologia con cinque inediti del gruppo di Robert Fisher – sia necessaria al proprio benessere, ma anche per manifestare a priori la propria scarsa obiettività nel giudicare i WGC. Eppure la compilazione in oggetto un difetto ce l’ha: appare troppo sbilanciata sugli esordi, i già deliziosi ma acerbi ‘3 Am Sunday@fortune Day’ e ‘Flying Low’. Ben quattro, infatti, sono i pezzi tratti dal primo disco e tre da ‘Flyng Low’. La qual scelta appare evidentemente motivata dalla difficile reperibilità degli esordi, le cui selezioni appaiono ora rimasterizzate per l’occasione, con il risultato però di escludere tracce fondamentali come Massachussets e diversi gioielli dell’ultimo ‘Regard The End’. Da quest’ultimo disco, del 2003, è stato tratto un solo pezzo, The Trials Of Harrison Hayes: assai poco per quello che è probabilmente il capolavoro della band.
E’ lo stesso Fisher a spiegare, comunque, nelle note che accompagnano ‘There But The Grace Of God: A Short History Of…’, l’idea alla base della compilazione: non un confuso assemblaggio retrospettivo ma un disco che suoni unitario, anche nello spirito di una celebrazione per i tanti che sono stati coinvolti nella ancora tutto sommato breve storia della band (nove anni e cinque dischi senza contare i live). Tra i protagonisti dell’avventura è lo stesso selezionatore dei diciassette brani della band, Jeff Lipton, a suo tempo primo chitarrista e ora responsabile del suono dei WGC.
Pur essendo debitori da un’infinità di artisti e rivoli musicali (diciamo per semplificare da Willie Nelson a Nick Cave), gli Willard si riconoscono dalle prime note, segno di una identità forte. L’impasto sonoro, dominato da viola, chitarra acustica e violino, è immediatamente individuabile ed è impossibile restare indifferenti alla splendida voce baritonale del leader. Scorrono così le versioni inedite di Bring The Monster Inside e Rainbirds, la tenue, pianistica, Love Doesn’t (inedito assoluto) e le già note The Work Song e Evening Mass.
Qualcuno lo chiama folk gotico ma gli Willard sfuggono alle etichette. Sono bravissimi e perciò continueranno a vendere poco. Destinati a restare oggetto di culto. Ma questa è un’altra storia.

Voto: 9

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Autore: s.sparapani@fastnet.it