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I Capolavori Inediti Del Padre Dell’ Horror Made In Italy:

Lisa e il diavolo La casa dell’esorcismo – doppio DVD
1972, Italia, 180 minuti, colore
versione originale italiana con sottotitoli opzionabili in inglese e versione inglese

Regia: Mario Bava
Soggetto e sceneggiatura: Mario Bava, Alfred Leone
Fotografia: Cecilio Paniagua
Montaggio: Carlo Reali
Musica: Joaquin Rodrigo, Carlo Savina
Produzione: Alfred Leone Production
Cast: Telly Savalas, Elke Sommer, Sylva Koscina, Alessio Orano, Gabriele Tinti, Kathy Leone

Extra:
Scene tagliate
Documentario L’esorcismo di Lisa
Trailer originale
Biografia e filmografia del regista
Galleria fotografica

 

Lisa e il diavolo

Mario Bava, il padre del cinema horror italiano, girò Lisa e il diavolo sul finire del 1972, tra la Spagna (Toledo) e l’Italia. Numerosi nomi, oltre a quello dello stesso Bava e del produttore Alfred Leone, risultano coinvolti nella sceneggiatura: Roberto Natale e Romano Migliorini (che già avevano scritto per il regista Operazione Paura, 1965), Giorgio Maulini e Francesca Rusishka, alla quale sembra debba farsi risalire l’idea originaria del film. Lisa e il diavolo (che ha conosciuto almeno altri due titoli, prima e durante la lavorazione: La casa del diavolo e Il diavolo e i  morti), non ebbe vita facile, nonostante si tratti di una delle pellicole più seducenti e impenetrabili di Bava: presentato al mercato del festival di Cannes del 1973, si rivelò un mezzo fiasco e circolò, in seguito, poco e male in Europa (in Italia rimanendo del tutto inedito), mentre in America venne trasmesso solo nei circuiti televisivi. Percorso da suggestioni letterarie (da Howard P. Lovecraft a Pierre Klossowsky) e da possibili richiami al cinema gotico contemporaneo (Nella stretta morsa del ragno, di Antonio Margheriti), Lisa e il diavolo può anche contare su un parco interpreti di primo piano: Telly Savalas, nel ruolo del diavolo-burattinaio che amministra la vicenda, di lì a pochissimo avrebbe incontrato il grande successo televisivo di Kojak (e il suo celebre lecca-lecca arriva proprio da questo film); Elke Sommer, già protagonista del precedente Gli orrori del castello di Norimberga, diretto da Bava; e ancora: Alida Valli, Alessio Orano, Sylva Koscina e Gabriele Tinti (gli ultimi due danno vita a una rovente scena di sesso, censurata nel montaggio definitivo del film e oggi recuperata).

 

La casa dell’esorcismo

La casa del’esorcismo uscì nel 1975, ma le sue origini risalivano a tre anni prima. Si tratta infatti di un montaggio alternativo di Lisa e il diavolo, diretto nel 1972 da Mario Bava. E’ particolarmente complesso ricostruire le vicissitudini di questa pellicola alternativa, che porta alla regia la firma di Micky Lion, pseudonimo dietro il quale si cela il produttore di Lisa e il diavolo, Alfred Leone. Fu appunto di Leone l’idea di aggiungere al primo film una nuova serie di sequenze, che ne trasformassero la storia in quella del sogno di una ragazza posseduta dal demonio: era il momento (seconda metà del 1973 c.a.) in cui L’esorcista di Richard Friedkin stava riscuotendo un enorme successo internazionale e l’operazione di Leone mirava a rilanciare in una forma più commerciale Lisa e il diavolo, che aveva avuto prevendite disastrose e in molti paesi era rimasto inedito. Mario Bava, inizialmente, si era accordato con Leone perché quest’ultimo realizzasse la nuova parte “esorcistica” solo per il mercato americano, ma di fatto il film trasformato fu quello che venne poi distribuito ovunque, anche in Italia. Le scene aggiuntive risultano – almeno ufficialamente – scritte dal produttore stesso e da Alberto Cittini (secondo altre fonti avrebbe contribuito anche lo scenografo Nedo Azzini) e furono girate da Leone insieme a Lamberto Bava, figlio di Mario Bava, che rimase invece completamente estraneo alla vicenda. Gli interpreti delle nuove sequenze, oltre a Elke Sommer, furono l’americano Robert Alda, nel ruolo dell’esorcista, e Carmen Silva, in quello della giovane tentatrice.

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“Il più violento dei polizieschi dal regista di Cannibal Holocaust”

Uomini si nasce poliziotti si muore – DVD
1976, Italia, 91 minuti, colore
versione originale italiana con sottotitoli opzionabili in inglese e versione inglese
TELECINEMA DA NEGATIVO 35MM RESTAURATO DIGITALMENTE

Regia: Ruggero Deodato
Soggetto e sceneggiatura: Fernando Di Leo, Alberto Marras, Vincenzo Salviani
Fotografia: Guglielmo Mancori
Musica: Ubaldo Continiello
Montaggio: Gianfranco Simoncelli
Produzione: CPC (Milano), TDI
Cast: Ray Lovelock, Marc Porel, Adolfo Celi, Renato Salvatori, Silvia Dionisio

extra:
– Documentario Poliziotti violenti
– Biografia e filmografia del regista
– Spot tv di Ruggero Deodato commentati da Ruggero Deodato e da Manlio Gomarasca
– Galleria fotografica

Uomini si nasce, poliziotti si muore (1976) si distingue, tra i polizieschi all’italiana di quel periodo, come il più violento e anticonvenzionale. Il merito è in eguale misura della regia di Ruggero Deodato, particolarmente versato nel raccontare vicende a tinte forti (suo è il famoso e pluricensurato Cannibal Holocaust), e di una sceneggiatura scritta da Fernando di Leo, autore dei migliori noir italiani (Milano calibro 9, La mala ordina, Il boss). Soprattutto la definizione psicologica e comportamentale dei due poliziotti protagonisti, appartenenti a una brigata anticrimine che ha completa libertà d’azione nella lotta contro la delinquenza, è inedita: Alfredo (Marc Porel) e Antonio (Ray Lovelock) non esitano ad ammazzare a sangue freddo i criminali cui danno la caccia, mantenendo anche nelle situazioni più truci un atteggiamento cinico e scanzonato. Il soggetto originale accentuava anche una componente di larvata omosessualità tra i due, che nel film risulta invece offuscata e Alfredo e Antonio vengono piuttosto fatti agire come playboy impenitenti. A causa dell’estrema violenza, alcune scene furono eliminate dalla censura – nella più efferata, Renato Salvatori strappava un occhio a un avversario e lo schiacciava sotto la scarpa – ma anche con questi tagli il film ottenne un divieto ai minori di 18 anni. Il pubblico comunque mostrò di gradire l’atipicità dell’operazione e Deodato si era già messo al lavoro per scrivere un seguito con gli stessi protagonisti, Porel e Lovelock, che poi saltò a causa dei dissidi tra i due attori.

 

“Uno dei più bei lavori sulla gioventù che il cinema giapponese abbia mai espresso. In contrasto ai cieli azzurri, alle attività sportive, alle sentimentali scene d’amore che solitamente caratterizzano il genere, la gioventù è ritratta qui nel buio della notte, descritta come il tempo delle interminabili discussioni, del disprezzo di sè, dell’umiliazione…”

 

Nihon no Yoru to Kiri – VHS

(Notte e nebbia in Giappone)

1960, Giappone, 106 minuti, Colore

versione originale giapponese con sottotitoli in italiano

Regia: Nagisa Ôshima

Sceneggiatura: Toshirô Ishido, Nagisa Ôshima

Musica: Riichiro Manabe

Fotografia: Takashi Kawamata

Montaggio: Keiichi Uraoka

Produzione: Shôchiku Films Ltd.

Cast: Miyuki Kuwano, Fumio Watanabe, Hiroshi Akutagawa, Shinko Ujiie, Akiko Koyama, Kei Sato, Rokko Toura

 

“Ho cercato di fare in questo film un critica rivoluzionaria del movimento rivoluzionario, confrontando le lotte degli anni ‘60 con quelle degli anni ‘50” dichiarò il regista a “Positif” (1969). Un film maledetto, censuratissimo (scoperto grazie al festival di Pesaro, nel 1972), appassionato e fisico, anche se costruito su astratte geometrie dello spazio e del tempo. Da qui la cerimonialità rituale di un’opera d’arte unica, che cerca di “trascrivere l’esatto diagramma degli eventi nel loro convulso divenire” scriverà Sergio Arecco, e che è un girotondo vorticoso di 45 piani sequenza onni-avvolgenti, incastonati a flashback intesi come squarci onirici che tentano di diradare le impenetrabili “nebbie del presente”. La macchina da presa, come una guardia rossa, fiuta la logica negli eventi nel loro convulso e spesso folle divenire. Un rito laico di “critica, autocritica e trasformazione”, maoista anche perché “ribellarsi è giusto” e “fuoco sul quartiere generale” erano parole d’ordine che catturavano la scultura interiore della gioventù insorgente del momento. Era, come il film, dalla parte del “soggettivo umiliato”, perché si deve far esplodere, mai reprimere, la festosa speranza rivoluzionaria. Il film è un esame di coscienza collettivo, fatto di continue discussioni, domande, ricordi, vergogna, shock, rivelazioni, sospetti, rimossi, auto-torture, confessioni. Insomma: una ricerca sulla giustizia assoluta. E, tra i tanti personaggi di questo film, complesso e corale, il punto di vista privilegiato è quello, “umano troppo umano” di Takumi, la coscienza critica e avanzata, il più rigoroso indagatore delle contraddizioni del gruppo, che arriva alla festa sotto il falso nome di Takao (un compagno istigato al suicidio a causa dell’irresponsabilità politica e della disumanità dei dirigenti). Takumi è un militante degli anni ‘50, comunista durante la guerra di Corea, quando il partito era ancora per la lotta armata clandestina, poi sempre più critico con il Pcg, ma ormai esterno al movimento. Una serie di flashback intrecciati rievocano i suoi scontri con i “duri e puri”, e con il clima di sospetto intollerabile che alimentavano, e una sensibilità comune a quella di Ōta, il giovane utopista intransigente e di Nozawa, corresponsabile della gestione fallimentare negli anni ‘50, ma adesso ricoinvolto di nuovo nel “pathos” delle lotte.

Questa dirompente rappresentazione dei contrasti tra gli studenti di sinistra, del settarismo e  “bizantinismo rivoluzionario” dentro e fuori il Partito, valse al ventottenne Ôshima – che già aveva fatto scandalo con il ritratto dei due giovani che si ribellano alla moralità convenzionale in Seishun Zankoku Monogatari, la leadership nella “nouvelle vague della Shôchiku” e la fama di “enfant terribile” della grande società di produzione che ritirò il film dalla circolazione, solo quattro giorni dopo l’uscita nelle sale, ufficialmente perché non incassava abbastanza, in realtà per il carattere dichiaratamente sovversivo di un film che uscì il giorno dopo l’assassinio del presidente del Partito Socialista Giapponese Asanuma, per mano di un estremista nazionalista.

 

Roberto Silvestri

Cordiali saluti
La redazione

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