Haino Keiji ‘Black Blues’

(Les Disques Du Soleil Et De L’Acier 2004)

Eccolo qui. L’ennesimo monolite nero scagliato dal musicista giapponese nelle esistenze di chi non teme l’ignoto e ha la pazienza e il coraggio della sottomissione. Due cd identici esternamente, distinguibili solo per le foto in copertina, ribaltate l’una rispetto all’altra. Quasi un gioco di specchi, dove l’uno si riflette nell’altro. E in effetti di questo si tratta dato che i due dischi contengono gli stessi brani interpretati in maniera diametralmente opposta, anche se di sola voce e chitarra trattasi in ambo i casi. Acustici ed estatici in uno, elettrificati e brutali nell’altro. Paradiso e inferno, amore e odio, vita e morte. Impossibile non speculare, sia pure semplicisticamente, sull’immaginario evocato da opere come questa. Nella versione acustica si susseguono brani dalla consistenza impalpabile, eseguiti con trasporto quasi mistico. In qualche modo simile ad alcune opere recenti tra cui ‘To Start With Let’s Remove The Color’, qui il processo di scarnificazione è ancora più marcato, anche se i brani strutturalmente sono più definiti. Tale la sensazione di abbandono emotivo da ammutolire il pensiero cosciente: il blues secondo Haino, note suonate come fossero le ultime esalazioni di vita, invocazioni consegnate al vuoto. La voce ridotta a semplice sussurro e la chitarra de-amplificata di Town In Black Fog, la sconsolata preghiera di Black Eyes con i suoi bagliori di slide tra i migliori episodi della versione acustica. Nella versione elettrica tutta l’atmosfera sin qui creata viene violentata con ferocia inaudita. La voce adesso è urlo disumano che vomita l’anima, strazio di un’assurda marionetta di qualche spettacolo Bunraku fatta a pezzi. La chitarra marziale e spietata, priva di effetti pirotecnici ed assolutamente essenziale. I livelli di registrazione perennemente vicini alla saturazione. C’è in queste note un senso del tragico spaventoso, quasi una voglia di ferirsi a morte. Black Eyes è puro concentrato d’angoscia e dolore con sprazzi di minaccia doom, Drifting un hard blues tumefatto e frastagliato, Black Petal che nella versione acustica era una dolce nenia diventa una marcia apocalittica. In mezzo a tutto ciò, rappresenta una sorta di anomalia I Don’t Want To Know, quasi un classico riffeggiare rock’n’roll. Ma il brano più temibile e grandioso attende in agguato alla fine del disco; una letale ed irriconoscibile cover di See That My Grave Is Kept Clean di Blind Lemon Jefferson, cavallo di battaglia tra l’altro di un’altra anima nera quale Diamanda Galas. Un inizio in sordina fatto di semplici accordi appena accennati che poi si tramutano in scosse telluriche e metronomicamente squarciano il silenzio, scandendo in una sorta di botta e risposta le ultime declamazioni, qui se possibile, ancora più veementi. Un vero e proprio gioco di nervi condotto con determinazione e disciplina agghiaccianti. Sarebbe sciocco pensare che cotanto estremismo espressivo rappresenti un meditato esercizio di stile, o peggio, farsi prendere dall’ilarità di fronte a certe “esagerazioni” interpretative. Haino non sembra uno che ama scherzare e qui l’effetto catartico e terapeutico è cosa serissima. Voti: 7 alla versione acustica, 8 a quella elettrica.

Voto: 8

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