Bobby Conn & the Glass Gypsies ‘The Homeland’

(Thrilljockey / Wide 2004)

Difficile inquadrare un tipo strambo come Bobby Conn, cosi come la sua bizzarra back band dei Glass Gypsies (sul tipo della Magic Band di Beefheart) che lo supporta. Al terzo tentativo, di carne al fuoco il signor Conn ne mette davvero parecchia: soul, funk, glam, disco e quant’altro; il tutto se vogliamo riassumibile in una sola parola, anzi in una cifra: ’70. E infatti tutto il suo album è un omaggio (o dileggio?!) alla musica seventes americana, per cui niente prog, canterbury sound o hard rock, ma spassoso rock col rossetto, anabolizzato sovente con dosi massicce di p-funk, quando non di disco dance (l’ombra cicciona di Barry White(!) è dietro l’angolo). Non solo forma comunque ma anche sostanza, come dimostrano pezzi scintillanti quali We Come In Peace (Bowie in acido?), o Relax, riuscitissimo incastro di Parliament e Earth Wind & Fire. Notevole quando innesta, come nel caso di Cashing Objections, e Ordinary Violence soft soul su trame funky alla Shaft (Isaac Hayes è sicuramente uno dei punti di riferimento di Conn), fino a spingersi alle derive elettroniche applicate al p-funk di We’re Taking Over The World. Le liriche intelligenti poi ci confermano che Bobby Conn è uno tosto sotto ogni punto di vista (ascoltatevi le invettive anti-Bush della già citata We Come In Peace o quelle anti-americane di Home Sweet Home se volete avere un assaggio della sua lingua pungente). Spiace solamente il voler strafare, e cioè l’ambiziosità di toccare ogni linguaggio, finendo per disorientare, cosi come gli arrangiamenti artificiosi e ridondanti in più casi, malgrado la produzione di John McEntire, che rendono il risultato finale un po’ arduo da assimilare. È vero che dosi massicce di arguzia e ironia riscattano il disco dal citazionismo e dagli arrangiamenti eccessivi, ma probabilmente un pizzico di ambizione in meno non avrebbe guastato.

Voto: 7

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