Oar

“OAR”

autore: Alexander Spence

etichetta: Columbia

anno di pubblicazione: 1969

con: Alexander ‘Skip’ Spence.

‘Skip’ Spence è uno dei più accreditati candidati al premio Nobel per la sfiga, fallisce infatti l’appuntamento con un tredici miliardario quando, dopo il primo disco, abbandona i Jefferson Airplane, con i quali suona la batteria, per coronare sogni di gloria come guitar hero. Ma forse, restando seduto dietro a quei tamburi, sarebbe mancato a un altro appuntamento: quello con la leggenda. Per lui le cose avrebbero certo preso una piega migliore ma per noi, credetemi e perdonate il cinismo, è molto meglio così. Attanagliato da problemi di carattere personale, dovuti anche all’uso eccessivo di sostanze allucinogene, dopo aver coronato il suo sogno di chitarrista nei Moby Grape, per i quali scrive almeno un classico: Omaha, abbandona pure quel gruppo. A tale periodo di profonda crisi appartiene questo disco visionario in cui canta e suona tutto da solo, e dove si confronta con generi più o meno tradizionali come il country, il folk, la ballata psichedelica e il blues – fino alla stratosferica escursione tribaloide di Grey/Afro – cantati sovente con una voce profonda che può ricordare Leonard Cohen (ma anche Fabrizio De Anré). Oar viene spesso paragonato a The Madcap Laughs di Syd Barrett, solo che qui non c’è la noncuranza, che segna l’opera solista dell’ex Pink Floyd, ma unicamente le allucinazioni di chi ha oltrepassato ogni limite, un po’ come succede per Roy Harper o per il Roky Erickson del dopo ascensore. Successivamente a questo disco, e ormai domo, ‘Skip’ parteciperà ad alcune trascurabili reunion di disciolti Moby Grape e si incamminerà infine nell’insignificante viale che porta verso un anonimo tramonto. Ma la leggenda è ormai nata e nulla, o nessuno, potrà mai cancellarla.