Perle Ai Porci

Nessuna archeologia di culti, nessuna ri-modulazione del passato…unica causa: rivendicare. Dischi,tendenze, formule, stili sospesi in un limbo.

 

 

 

Blind Mr Jones  Stereo Musicale’

(Cherry Red/1992)

Di certo uno dei migliori dischi shoegazing negletto e fluttuante in un limbo sconosciuto ai più. Forse una delle proposte più ‘vere’ nel senso di lirica dedizione a un sogno psichedelico devotamente coltivato. Laddove i Ride peccavano di accattivante ‘chewingum’ sound, la band di Richard Moore e James Franklin, pur restando tutto sommato nelle stesse coordinate, era in grado di immergersi in solipsistiche apnee psichewave come quelle degli splendidi strumentali d’apertura  (con un uso del flauto che fa esplodere a migliaia di anni luce qualsiasi eco progressive possa esser stata loro attribuita). Laddove gli Slowdive erano ammorbantemente vischiosi, “Stereo Musicale” solcava vellutatamente i padiglioni auricolari con andamento sfuggente e mellifluo (effetto-sensazione-mattutina-post-sogno-bellissimo-di cui-non ricordo-esattamente-molte-parti). Brani come Regular Disease, Unforgettable Waltz  o Small Caravan sono la sintesi di tutte le istanze dream pop, ‘early Creation sound’ o soft-psichedeliche dei primi ’90, ma con un piglio decisamente ripiegato su sé stesso, con la debordante capacità di rievocare un messaggio senza tempo e volutamente indirizzato a quei pochi che in una conversazione preferiscono ascoltare più che altro i ‘silenzi’. Barlumi di digressioni dal tracciato ormai noto vengono poi disseminate qua e là (melodie oriental-plastificate e qualche bleep ante-litteram ad esempio in Lonesome Boatman) a completare un mosaico che rendeva superflui già allora tutti i vari Aluminium Group o Puressence dei giorni nostri.
Aver mancato questa uscita è l’equivalente di aver mancato per un pelo il treno dove avreste incontrato la biondina in possesso di una metà dell’anello d’oro di Shazan. Il consiglio è quello di recuperare al più presto (all’epoca acquistai la versione in vinile ma ci ha da poco pensato la ‘Cherry Red’ a renderlo nuovamente disponibile nell’ormai sorprendentemente duraturo formato compact).
Restiamo intanto in attesa che il possessore dell’altra metà di quell’anellino si faccia vivo in una qualsiasi delle prossime uscite.

Mauro Carassai


Terminal Cheesecake Johnny Town-Mouse’

(Wiiija Records/1988)

Anno del signore. L’inghilterra freme per nomi come Loop, Spaceman 3, My Bloody Valentine, i veterani Jesus and Mary Chain, i  Telescopes , in poche parole chitarre, chitarre ed ancora chitarre. Siamo in pieno delirio Velvet style e non sembra esserci spazio per altro, ma a Londra l’agguerrita  ‘Wiiija’  inizia le proprie trasmissioni producendo un gruppo sconosciuto che grave; puro delirio in confronto alle pratiche tutto sommato fruibili dei gruppi sopra citati. “Tastequot” dei Telescopes (disco enorme sia detto) in confronto: un giochino per bambini. I Terminal Cheesecake sono dei perfetti signor nessuno che sparano bordate, a cui un orecchio attento deve aver prestato anche gruppi  come i Godflesh, siamo più o meno dalle parti dei Pil; rancorosi e ripetitivi, sicuramente con forti dosi di Pop Group,  ma dentro a “Johnny Town-Mouse” tutti i possibili riferimenti impallidiscono e perdono senso in virtù di un magma rovinoso, che incorpora distorsori a manetta branditi come trapani, vocalismi distorti che paiono figli di un assurdo rap bianco, che trova flebile paragone forse in certe produzioni di Mark Stewart  o forse in qualche declamazione di scuola  Crass , ma non ci siamo ancora,  provate ‘Angel-Worm’, ci sono chitarre realmente psych a spasso con ritmiche  marziali molto Killing Joke e qualcosa di estremamente ferino che si agita dietro la voce; imperdibile.
Come imperdibile risulta essere lo scontro frontale rovinoso di ‘Kugelschreiber’ che suscita ricordi vagamente Throbbing Gristle subito sfregiati da attitudine hardcore sublime e da delay vocali impazziti e distorti senza ritegno. A ruota segue ‘Mustard Gas’, massacro sinfonico di stampo avanguardistico, vagamente orientale ed anche un tantino delicato in confronto della tempesta che chiude il disco a nome ‘Terminal Head-Fuck’, straziante affresco spaziale martellato in assenza di gravità con chitarre che parlano linguaggi sconosciuti ed imprendibili. Superbamente lisergico. Johny Town-Mouse disco che suona come scontro di carri armati, o tempesta di neve, o delirio epilettico od ancora sputo di assoluto nulla periferico, che reclama il proprio spazio vitale minimo con assoluta convinzione.
L’anno dopo uscirà “Streetcleaner” dei Godflesh ed i Loop uniranno le loro forze in un tour spaventoso in compagnia degli stessi e dei temibili World Domination Enterprises (questo: altro gruppo sul quale sarà obbligatorio ritornare) ma i Terminal restano lontani ed alieni nel loro universo squassato dal pogo impazzito del pubblico. Purissima isteria sonora; forse in compagnia di Skullflower il più drogato gruppo del mondo.
Assolutamente necessario!

Marco Carcasi


Hikashu ‘Hikashu History’

(Tzadik/2001) 

Che cosa sarebbe successo agli odierni musicisti nipponici se non avessero ascoltato, almeno per una volta nella loro vita, la voce di Makigami Koichi alla guida della nebulosa, a riguardo di notorietà e fama, band (nata intorno il 1978 e ancora attiva…di tanto in tento non manca di vederli catapultati in lunatiche performance) più stralunata e bizzarra che sia stata congeniata dagli umori (non catartici) occulti nella terra del Sol Levante: gli Hikashu. Esageriamo…forse dicendo che non sarebbero fiorite formazione di tutto rispetto nel panorama internazionale, come i Ground Zero, emerse le perline del folk-tronico degli After Dinner, ma anche, volendo emigrare da questo continente, sarebbe mai riuscito il megalomane John Zorn a non far trovare strade d’uscita lineari nei suoi Game Pieces (“Cobra”…)?. Non forse, la risposta è nettamente negativa! Tutti  questi punti fermi dell’avanguardia ironica, beffarda, insolente, che colpisce quando meno te l’ho aspetti, non avrebbe albeggiato neanche per una frazione di secondi sui nostri scaffali impolverati e zeppi di dischi. Gli Hikashu sono il gruppo che hanno spinto le loro cuffiette, sintonizzate su pop-love-songs, manga culture, kung-fu movie, passioni da teenager, tradizional song, in sintomatici azzardi per l’avanguardia, aprendo questo libro e sfogliando tutti i capitoli alla perfezione, (elettronica, free jazz, noise- in voluminoso-). Di loro in giro rimane poco, anzi niente, e questa compilation, manco a dirlo, uscita per la ‘Tzadik’, è un ottimo spunto per calarsi nelle molteplici, goliardiche maschere del giullare Koichi in oltre venti anni di attività. Alcuni esempi?
Marciette robotiche drogate sporcate dalle condutture poco pulite di un sax (Muscules and Fruit), tastierine giocattolo, isterie lunatiche, languidi giochi di voce presi in giro tramite una elevata esasperazione dell’ironia (Puyo Puyo). In quasi tutte le 22 tracce (menzionarle tutte sarebbe un’impresa teutonica) la voce di Makigami è assolutamente protagonista; il suo lirismo sovrasta entrambe le materie trattate, distaccandosi in maniera intransigente e volutamente arrogante ad esse. Non si capirà mai quale sia l’elemento –pop e sperimentazione- che venga plagiato per sfinarlo dalla rigidità contenuta in lui.
Per fortuna che a volte non esistono risposte.

Sergio Eletto