The Telescopes ‘Third Wave’


(Double Agent/White’n’ Black 2002)

Ciò che ho sempre smodatamente adorato dei Telescopes è il loro perenne essere fuori posto. Nonostante le diverse interpretazioni (geni incompresi all’interno di un festoso convivio di emerite nullità o nota stonata in una sinfonia corale ed autoindulgente come quella del movimento shoegazing), Stephen Lawrie e soci hanno dalla loro parte un imprinting deviante che non si scrolleranno mai di dosso.

Bastava ascoltare quel loro primo “Taste” per rendersene conto: quei pochi secondi di estasi di chitarra arpeggiata in apertura e l’inferno di feedback che ne seguivano dimostravano uno sfasamento inconciliabile tra attitudine noise e verve psichedelica-sognante, quasi la dimostrazione dell’esistenza di due anime che avrebbero continuato ad avvitarsi come bisce per l’intera durata del disco. Nessuna delle due formule era nettamente riconoscibile, né completamente sviluppata: chi li mise di qua, chi li mise di là, chi li ignorò completamente come “qualcosa di inconsueto che lì per lì non si capiva neanche… diamine…”
“Trade Mark of Quality” e l’omonimo “The Telescopes” aggiunsero solo confusione alla confusione… e poi c’erano così tante altre bands di cui occuparsi…

Per chi invece uscì devastato quanto me dall’incontro con la band di Burton-upon-Trent, il ritornare a guardare attraverso le lenti di siffatti telescopi mediante il nuovo “Third Wave” è un’esperienza stordente e iniziatica.
L’ultimo album dei Telescopes è una splendida collezione di manipolazioni mentali dal suono impalpabile, ovattato e sfuggente. Il marchio c’è, manca tutto il resto. Le atmosfere sono a tratti noir come in 3D Jesus Ashtray (ondeggiante traversata con svisate jazzistiche), a tratti tecnologicamente irregimentate come in Tesla Death Ray (l’incedere quasi marziale delle mareggiate sintetiche condite da orpelli videogame è davvero spiazzante), a tratti semplicemente meravigliose nel loro ampio respiro estatico come in When Nemo Sank the Nautilus.
All’epoca l’establishment oggetto di destabilizzazione a loro più vicino era costituito dalle esperienze postwave che stavano trascolorando nel Creation sound dei primi ’90. Oggi i contorni sono indubbiamente meno definiti ma la lieve e sognante A Cabin in the Sky attenta ai Sigur Ros così come A Good Place to Hide drena all’osso il trip hop di Portishead o Barry Adamson e in tutto il disco si avvertono labili richiami, istantanee evocazioni di qualcosa ucciso e deformato dai nostri (vedi su tutte la conclusiva You and I Are the Foxboy Noises, come se De Chirico ridipingesse l’electropop sound dell’imperante marchio Morr).
Tutto però resta nell’indefinibile/ito giusto a metà strada tra lo scadente e il capolavoro …del tipo:
”insomma… mmh… mhpf… non lo capisco…” (a cui si aggiungerebbe poi l’ “eppure non sono un cretino” da parte dell’esperto recensore con anni di onorata carriera alle spalle).
L’unico consiglio che mi sento di darvi è: disprezzateli o amateli alla follia… insomma niente giudizi accennati, voti mediosufficienti e solita orchestrina degli interminabili ‘sono molto cambiati rispetto all’inizio mi pare’ ecc. ecc. ecc….

Voto: 9

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