Welles ’33:44’


(Autoproduzione 2009)

Massimo Audia, alias Welles (in onore di Orson, il celebre regista) è un “ladro” di musica: chiuso nella camera da letto della sua casa di Lodi, circondato dal computer, «vecchi robot impolverati» e dischi di ogni sorta, si è cimentato in un opera di cut ’n’ paste e di manipolazione sonora (senza disdegnare di incidere riff con una chitarra elettrica non amplificata e poi, naturalmente, stravolta con l’ausilio di un equalizzatore). Lo aveva già fatto con il debutto “Ultimate Dollar Oblivion” (2006) e dunque, si deve essere chiesto il chitarrista dei Satantango, perché non ripetere la procedura adoperata per registrare quell’ottimo esordio? I fatti gli hanno dato ragione: “33:44” è un signor disco.
Immaginate una jam session tra Suicide, Devo, Joy Division e Captain Beefheart ed otterrete una vaga idea del sound di Audia: un blues metropolitano a tratti sghembo, a base di un’elettronica glaciale e sporca, fatta di campionamenti e loop ossessivi, ma che ben si adatta al dancefloor – ammesso che siate androidi…
La litania spettrale di Dead Birds Fly Again, il riff di chitarra trattata di Captain John, che ammicca a certe cose di Mark E. Smith, gli spunti industrial ed il basso joydivisioniano di March On Mars, la disarticolata Caustic Dance, figlioccia tecnologica della follia primitivista di un Captain Beefheart, il funk glaciale di North Narcotic, le ballabili Jewel e Ready (dal finale cacofonico) e la delirante Quicksilver, non costituiscono per nulla (contrariamente a quanto afferma l’autore stesso) un insieme di composizioni autoreferenziali. Tutt’altro: sono brani terribilmente intelligenti, dotati di una forza e di un’energia (nervotica, psicotica, allucinata) che raramente capita di ascoltare al giorno d’oggi.
Con “33:44”, insomma, Massimo Audia si conferma come uno dei talenti più promettenti della scena elettronica moderna.

Voto: 8

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